Campobello di Mazara, il paese in cui è stato catturato dopo trent’anni di latitanza Matteo Messina Denaro e dove ieri hanno arrestato la sorella maggiore Rosalia, conta meno di 12mila abitanti. Come ha potuto la presenza del boss passare inosservata, e su che tipo di connivenze ha potuto contare? Lo abbiamo chiesto ad Attilio Bolzoni, giornalista del quotidiano Domani, esperto di mafie.
La presenza del boss Messina Denaro a Campobello di Mazara come ha potuto passare inosservata?
“Messina Denaro”, risponde Bolzoni, “ha goduto due tipi di protezione, uno che definisco “orizzontale”, un altro “verticale”. A dargli protezione orizzontale è stato il paese, non sono stati i fiancheggiatori o i complici diretti. Campobello di Mazara ha poche migliaia di abitanti, quando Messina Denaro non si sentiva sicuro in un covo, andava in un altro a soli cento metri di distanza. In un paese c’è il comandante dei carabinieri, c’è il vigile urbano, ci sono i passanti, il meccanico, non è come quando sei in una grande città dove puoi passare inosservato. In un paese piccolo l’estraneo si nota subito, per questo dico che Messina Denaro ha goduto di un tipo di protezione orizzontale molto forte”.
E la protezione verticale chi la garantisce?
“Per fare il latitante per trent’anni, come nel suo caso, devi necessariamente avere un tipo di protezione di questo tipo. Quella verticale è la protezione a un certo livello, la stessa che ha permesso le lunghe latitanze di Totò Riina e di Bernardo Provenzano. è una caratteristica che accomuna tutti i latitanti. Con gli strumenti che si hanno a disposizione, cellulari e computer, riuscire a scovare uno che delinque non dovrebbe essere difficilissimo, a meno che, appunto, non hai una rete di protezione che non lo permette. Se ci mettessimo a delinquere io e te, tempo quindici minuti ci beccherebbero”.
La sorella di Messina Denaro, però, è stata incastrata dai “pizzini” che le hanno trovato in casa…
“Siamo sicuri che la storia sia andata proprio come ce la raccontano? I pizzini sono efficaci ma ancora non sappiamo con esattezza come sono veramente andate le cose”.
Il ministro della giustizia Nordio per giustificare la stretta sulle intercettazioni aveva sostenuto che i mafiosi non parlano per telefono.
“Le intercettazioni servono e molte indagini lo hanno dimostrato, anche se i mafiosi difficilmente parlano per telefono e quando lo fanno usano telefoni “puliti”…”.
Torniamo all’arresto di ieri: qual è il ruolo delle donne di mafia?
“Chiariamo subito una cosa: le donne di mafia, le donne d’onore non esistono, però la sorella maggiore di Messina Denaro è una donna sposata con un capomafia di Brancaccio (Filippo Guttadauro, che sconta l’ergastolo al 41bis, ndr). Il ruolo delle donne di mafia è cambiato così come è cambiata la società, nel senso che quando tutti i maschi sono dentro loro fanno il lavoro di raccordo. Rosalia Messina Denaro non è certo la prima ad aver assolto a questo compito”.
Fulvio Manno, manager dell’Azienda sanitaria di Trapani da fine 2002 ad aprile 2005, ha detto che la mafia trapanese e Matteo Messina Denaro avevano “moltissimi interessi” nel mondo della sanità.
“Per tutte le mafie, non solo in Sicilia, la sanità è sempre stato un settore chiave per fare affari, così come lo è quello dei rifiuti. Non dimentichiamo che Totò Cuffaro è stato condannato per aver taroccato, insieme a un prestanome di Bernardo Provenzano, il tariffario di Villa Santa Teresa, la clinica di Michele Aiello alla quale la Regione aveva pagato per le prestazioni di cure antitumorali tariffe di dieci volte superiori rispetto a quelle vigenti nelle altre regioni italiane”.
Dopo l’arresto scrivesti sul tuo giornale che “Matteo Messina Denaro è un mafioso quasi morto che appartiene a una mafia già morta”…
“Il suo arresto non è stato altro che il bollo dello Stato su una battaglia vinta almeno una quindicina di anni fa. C’è invece una mafia degli incensurati che sembra ancora intoccabile, una mafia “trasparente” – uso la definizione di una giudice siciliana – che si è fatta sistema infetto”.
Parlavi di “sistema infetto” già quattro anni fa nel tuo libro “Il padrino dell’antimafia”.
“Purtroppo, in tanti sono rimasti fermi alla mafia che spara. E questa è una mancanza di sapere. La mafia non è mai cambiata, è tornata a mischiarsi con la società. E anche lo Stato non è cambiato dopo che ha mostrato i muscoli”.
Giornalista antimafia è una definizione che ritieni corretta?
“La ritengo una pessima definizione e non mi piace. Un giornalista pubblica le notizie. Ci sono colleghi che fanno il “copia e incolla” e senza vergogna si definiscono giornalisti d’inchiesta. Ti garantisco che alcuni funzionari di polizia scrivono molto meglio e i verbali da loro redatti sono scritti in un italiano migliore di quello usato da tanti colleghi”.