La strada pare ormai tracciata. Dopo la visita di Giorgia Meloni a Kiev dal premier ucraino Volodymyr Zelensky, l’impegno dell’Italia sarà ancora più concreto di quanto già non lo sia stato. Non a caso, dopo essere rientrata in Italia, la presidente del Consiglio si è messa subito al lavoro, ovviamente col titolare della Difesa Guido Crosetto, sul settimo decreto col quale invieremo nuove armi all’Ucraina.
Ci sono però questioni tecniche e di coordinamento che andranno risolte. Nodi che non si sciolgono in una manciata di giorni, come ha lasciato intendere qualche giornale. Per esempio, le batterie dello scudo Samp/T, in sostanza missili che abbattono missili nemici, devono ancora partire per Kiev e dovranno essere assemblate con i pezzi in arrivo dalla Francia. Insomma, a quanto pare siamo ancora impelagati con le armi descritte nel sesto decreto, il primo dell’era Meloni, e non è affatto scontato che le forniture si aprano a ventaglio in altre direzioni.
Gli impegni presi però dalla Meloni non sono di poco conto: jet, in particolare i caccia, non più di 4 o 5, droni e altre tipologie di missili. Sicuramente invece nella lista della spesa “apparecchi” certamente meno roboanti, a cominciare da dispositivi Nbc, quindi tute, maschere, filtri d’aria, tutto ciò che può servire nel terrificante caso di aggressione nucleare, biologica o chimica.
Strada sbarrata nelle destre
Il problema, in altre parole, è che al momento questo catalogo “dei desideri” (di Zelensky più che della Meloni stessa) sta alla voce suggestioni e viene accolto con un certo scetticismo fra Palazzo Chigi e il ministero della Difesa. I problemi sono essenzialmente di due ordini. Innanzitutto “logistico” per così dire: l’Italia non dispone di tutte le tecnologie e le produzioni evocate nel dibattito dell’ultima settimana. Si va avanti dunque con i piedi di piombo e matura anche la coscienza che le concessioni illimitate siano un incentivo al dilatarsi del conflitto.
E al propagarsi dell’incendio portato dalla guerra oltre i confini dell’Ucraina. Il secondo ordine di problema è, se si può, ancora più dirimente ed è di ordine “politico”: proprio per via del fatto che – finalmente, direbbe qualcuno – è sempre più palese che l’invio massicco di armi non ha risolto il conflitto, semmai lo ha acuito, va crescendo anche all’interno della maggioranza la convinzione che probabilmente la strada migliore non è quella della fornitura “ad libitum” di armi e munizioni.
Tutti scontenti
Al di là di quello che dice e pensa la Meloni, nei palazzi istituzionali cresce la “fronda” nelle destre di chi è contrario a questo invio indiscriminato, sia in Forza Italia che nella Lega. L’obiezione che comincia a circolare nei due partiti alleati di governo è che, inaspettatamente, la Meloni pare essersi assuefatta ai desiderata della Nato e degli Stati Uniti. Malumori che, come noto, sono esplosi soprattutto dopo le parole di Silvio Berlusconi che, evidentemente, non sono state accolte con particolare calore da Kiev tanto che la stessa presidente del Consiglio, in visita da Zelensky, ha dovuto porre rimedio.
Non che si respiri aria diversa nella Lega con diversi esponenti, a partire dalla stesso Matteo Salvini, che non hanno risparmiato internamente critiche all’atteggiamento eccessivamente filo-statunitense della premier. Il rischio, in altre parole, è che la Meloni con il prossimo decreto armi sommi agli oppositori esterni alla maggioranza quelli interni alle destre. Un pericolo non di poco conto considerando che proprio oggi scocca l’anno esatto dall’invasione russa in Ucraina. E che gli oppositori “formali” hanno marciato stanotte per gridare al mondo il bisogno di pace. Che non si ottiene continuando a inviare armi.