Di contraddizioni, così come di virtù, il nostro Paese ne ha in abbondanza, ma quando queste interessano un capitolo decisivo per la qualità della vita come quello della sanità diventa difficile cullarsi nella speranza che in futuro le cose vadano meglio.
Anni di tagli alla sanità pubblica presentano il conto. Le Regioni però non hanno risposte strutturali
Se sto male, hic et nunc, devo avere la certezza di recarmi nel più vicino presidio ospedaliero e trovare un medico – con quella determinata specializzazione – pronto a curarmi. Se siamo in Calabria questo medico è probabile che parli un italiano non perfetto, non perché ceda a forme dialettali locali, ma perché viene da Cuba per sopperire alla mancanza di omologhi italiani che migrano nella ridente Germania dove il sistema sanitario si presenta decisamente più attrattivo del nostro, a partire dalle retribuzioni.
I medici cubani, per la cui disponibilità non saremo mai sufficientemente grati, con i loro meravigliosi sorrisi dichiarano di aver raggiunto l’Italia perché da noi c’è un’emergenza umanitaria e unitamente al compenso (che più basso di quello della Germania è evidentemente più alto di quello di Cuba) vogliono aiutarci a superarla, immaginando poi di approdare ragionevolmente in terre teutoniche.
È chiaro che il Presidente della Regione, Roberto Occhiuto, sia arrivato a siglare questo patto con Cuba in via emergenziale per tamponare il disastro della più che decennale gestione commissariale della sanità regionale, inserita nel disastro nazionale che ha visto continui tagli alla sanità praticati anche da quei governi di Centrosinistra – basti pensare ai 16,6 miliardi in meno del governo Renzi, o ai 3,3 di quello Gentiloni – che oggi urlano dai banchi dell’opposizione contro la Meloni proprio sul tema della sanità.
Perciò possiamo convintamente sostenere che le responsabilità della politica nel degrado dei servizi sanitari in Italia siano equamente condivise a destra come a sinistra ma, anziché fare il processo alla storia (pure utile quando si esercita il diritto di voto), qui è più utile, e urgente, trovare una soluzione. Poiché il problema non è solo del Sud, prova a “metterci una pezza” il Nord (notoriamente più ricco e con un maggiore appeal nel settore) attraverso il ricorso ai “gettonisti” che tra Veneto e Lombardia, per citare due regioni, possono arrivare a guadagnare con una notte quello che un medico di ruolo percepisce in un mese di lavoro.
Eppure, una legge del 2018 renderebbe illegale la pratica che invece si mostra facilmente aggirabile ricorrendo alla motivazione dell’emergenza sanitaria in favore delle cooperative private, alle quali le aziende sanitarie territoriali sarebbero costrette a ricorrere. Facile e condivisibile tentazione quella del medico di ruolo che dimettendosi dal pubblico va a lavorare nel settore privato aggravando ulteriormente le condizioni di una sanità dello Stato che non vede fondi sufficienti per finanziare borse di studio affinché siano garantite le specializzazioni di cui i nostri ospedali necessitano.
Essenziale inoltre che vi sia anche una continuità nel servizio offerto dalle strutture, che non può vedere variazioni continue di professionisti, pena l’efficacia del servizio stesso, che passa da un rapporto continuativo e personale tra medico e assistito.
In attesa che questo problema strutturale veda una soluzione, e memori della lezione che la pandemia dovrebbe averci insegnato, oggi sarebbe più che mai necessario incentivare quei medici che vogliono lavorare anche in quelle realtà che risultano essere meno attrattive di altre, proprio come accade per quei magistrati che, tra tutte le insidie, accettano di lavorare in regioni tanto belle quanto difficili, come la Calabria, ma non solo.