Si temeva ed è accaduto. Nonostante le premesse del segretario uscente Enrico Letta e nonostante i buoni propositi di tutti i candidati alla segreteria (Elly Schlein, Stefano Bonaccini, Gianni Cuperlo e Paola De Micheli), il congresso del Pd ha l’aria di essere la solita, l’ennesima, seduta di psicoterapia di gruppo di un partito in costante ricerca di un’identità.
Dalla guerra alla riforma della Giustizia. Il Congresso del Pd sembra una seduta di psicoterapia. I dem non hanno posizioni chiare su nulla
Ad oggi i temi che sono diventati notizia sono sempre gli stessi. Si passa dal possibile rientro nel partito dei membri di Articolo Uno (guidati dall’ex ministro Roberto Speranza) con annessa polemica su D’Alema e un pizzico di complottismo sull’ex presidente del Consiglio 23 anni fa al mai superato trauma del renzismo che si è riacceso nei giorni scorsi con le opposte valutazioni dei candidati sul Jobs Act.
Per capirsi: Massimo D’Alema ha guidato Palazzo Chigi ben 23 anni fa e sul mondo del lavoro gli elettori e gli iscritti sarebbero molto più curiosi di sapere cosa si ha intenzione di fare, più di discutere sulle macerie. Bastano questi due esempi per fotografare le battaglie di retroguardia di un partito che nel frattempo in Parlamento non riesce ad avere una posizione univoca sull’invio di armi in Ucraina, sulla proposta del ministro Nordio, sul progetto d’autonomia o sulla gestione dell’immigrazione e perfino sulle commemorazioni di Bettino Craxi.
Il Pd delle ultime settimane appare svuotato, immobile, paralizzato dai sondaggi impietosi e in attesa di una svolta che dovrebbe arrivare da qualche inaspettato successo alle elezioni regionali (in Lombardia il candidato Pier Francesco Majorino lo ripete spesso, “una nuova Lombardia per un nuovo Pd”).
Letta: “Abbiamo bisogno di un nuovo partito, non di un nuovo segretario”
“Abbiamo bisogno di un nuovo partito, non di un nuovo segretario. E per un nuovo partito serve una base politica, e il manifesto la dà, una base che ci mette nelle condizioni di essere molto ambiziosi per il futuro”, diceva Letta qualche giorno fa a proposito dell’ennesima polemica (tutta interna, tutta poco interessante qui fuori) sull’aggiornamento del Manifesto dei valori del partito che risale al 2007.
Questo lo sentiamo ripetere da sempre. Ma come? Ed è questa la risposta che fatica ad arrivare. Qualcuno insiste sulla “fusione a freddo” mai riuscita tra due apparati – più che due ideali – che ancora continuano a farsi la guerra. In questa situazione viene fin troppo facile al cosiddetto Terzo polo infilare il dito nella piaga: “Il dialogo” con il Pd “ci può sempre essere, il problema è che può vincere Bonaccini o Schlein, e mi auguro vinca Bonaccini, ma quel partito è diviso a metà tra chi è riformista e chi massimalista e si vuole avvicinare ai 5 Stelle”, ha detto ieri Carlo Calenda, che aspira da sempre al logoramento dei Dem per poterli annettere.
Il sondaggio Winpoll dà Bonaccini al 46% con Schlein poco dietro (al 41%) e distanti Cuperlo (7%) e De Micheli (6%)
Il sondaggio Winpoll dà Bonaccini al 46% con Schlein poco dietro (al 41%) e distanti Cuperlo (7%) e De Micheli (6%) nella fase della votazione interna al partito mentre nella seconda fase (quella del voto aperto a tutti) la forchetta tra i due contendenti si ridurrebbe a 3 punti a favore del presidente dell’Emilia Romagna. Ma il terrore di molti, dentro e fuori il Pd, è che finisca con una vittoria di Bonaccini, un posto di prestigio per Schlein e qualche spazio per gli altri due candidati.
Sarebbe sostanzialmente una suddivisione di potere che darebbe adito alla sensazione di un’immutata natura con modificati equilibri. Nulla di diverso da quello che il Pd già è, fiaccato dalle correnti e da logiche interne incomprensibili ai più e respingenti per gli elettori. “Siamo l’unica forza che discute al proprio interno”, fa notare qualcuno. È vero. Il punto è che i partiti, tutti i partiti, dovrebbero parlare anche fuori e, nel migliore dei casi, essere convincenti.