Veronica Aneris è direttrice della sezione italiana di Transport & Environment, il principale gruppo europeo di campagne per i trasporti a emissioni zero. Costituito trent’anni fa T&E ha contribuito alle più importanti leggi europee, ha contribuito alla scoperta dello scandalo del dieselgate (che nel 2015 coinvolse il gruppo Volkswagen) e l’anno scorso con la sua campagna ha portato il Parlamento europeo e gli Stati membri ad accettare di porre fine alle vendite di nuove auto e furgoni a combustione entro il 2035.
Una ricerca Deloitte dice che il 78% degli italiani vuole abbandonare benzina e diesel e passare all’elettrico. Intanto il sindaco di Baripropone un abbonamento dei mezzi pubblici a prezzo simbolico. Sta davvero cambiando qualcosa nella mobilità?
“Sì, ormai siano nel pieno di un cambiamento che non si può arrestare”.
La politica è pronta al 2035 quando non sarà più possibile in Europa immettere sul mercato nuove auto e furgoni a combustione interna? O siamo di fronte all’ennesima promessa che mancheremo?
“La politica europea è fatta dalle politiche dei suoi Paesi più importanti tra cui l’Italia. È stato fatto molto. Il 2035 aiuterà la politica ad andare nella giusta direzione, dà chiarezza all’industria, ai consumatori e alle amministrazioni che si devono occupare delle infrastrutture. C’è però da fare di più non solo dal punto di vista climatico e ambientale ma anche sulle politiche industriali perché l’Ue mantenga la sua competitività. Il mercato globale ha già deciso il futuro: abbandonare un motore inefficiente verso una tecnologia nettamente migliore. Ci sono ovviamente molti interessi in campo. È difficile far capire l’importanza che ha questa decisione perché è veramente l’inizio della fine dell’era del petrolio. Ricordiamo che il trasporto dipende dai combustibili fossili per più del 90% e l’auto è tra i maggiori responsabili dell’importazione del petrolio. Il 2035 può essere la fine di questa era”.
Quali sono i pregiudizi che ancora ci tengono incollati al fossile? Quali gli interessi?
“Gli interessi sono quelli del vecchio mondo. Ci sono anche i pregiudizi, come la paura del cambiamento alimentata da una narrativa catastrofica verso la transizione di cui Roberto Cingolani è stato il picco. Di transizioni ce ne sono sempre state e ce ne saranno sempre. Bisogna chiedersi come cogliere tutte le opportunità e in questo senso il passaggio dal tradizionale motore endotermico al motore elettrico è diventato un simbolo. Le industrie devono trasformarsi. Noi inizialmente producevamo molte auto, ora produciamo sempre meno auto e sempre più componenti: siamo i primi a dover cambiare. Tra un po’ quei componenti non li vendiamo più a nessuno. E non sarà colpa dell’Europa. È l’innovazione tecnologica, in questo caso indispensabile per mantenere la temperatura del pianeta nei limiti per evitare la catastrofe”.
Qualcuno (anche nel governo) dice che prima di passare all’elettrico sarebbe il caso di sperimentare altri combustibili. Che ne pensa?
“I combustibili sintetici o i biocombustibili utilizzati nel trasporto su strada sono una grande
distrazione e una perdita di tempo. Sono altamente inefficienti e non ce ne sono abbastanza. È necessario utilizzare questa tecnologia dove non è possibile usarne una più efficiente. Hanno un ruolo nel processo di decarbonizzazione, certo, ma vanno usati dove la tecnologia elettrica non è disponibile e applicabile. Altrimenti sI tratta di un cavallo di Troia per rimanere più a lungo possibile nei fossili. Una scusa per giustificare immobilismo. Una scusa pericolosa”.
Rimane però un problema sulle auto elettriche: i costi. Come si può intervenire?
“Il discorso è sempre lo stesso sulle nuove tecnologie. Inizialmente costano di più ma poi intervengono le economie di scala. Uno studio di Bloomberg commissionato da noi individua parità di costo per le auto elettriche nel periodo 2025/2027 se le giuste politiche verrano messe in atto. Quali siano le giuste politiche si può capire dai comportamenti degli Stati e qui l’Italia è un campione negativo. Una nostra analisi sulle politiche fiscali degli Stati membri dell’Ue individua due punti importanti: il primo è che la politica fiscale applicata all’auto è un volano importante per la transizione. Il secondo è che la politica fiscale italiana è inadeguata a promuovere l’auto elettrica e anzi rappresenta un freno. Bisogna seguire le buone pratiche dei Paesi europei, come riformare la fiscalità delle auto aziendali. Le auto aziendali fanno molti chilometri (quindi vengono ammortizzati i costi) e nel giro di tre-quattro anni quelle auto confluiscono nel mercato dell’usato. Oggi in Italia quegli incentivi sono stati tagliati. Hanno incrementato gli incentivi per le famiglie meno abbienti che non compreranno un’auto, tantomeno elettrica. Il mercato è sostenuto dall’usato delle auto aziendali. Solo per mantenere le accise benzina abbiamo speso 11 miliardi di euro che potevamo spendere in modo più intelligente”.
A proposito di batterie. Tra gli oppositori dell’elettrico si dice che una transizione del genere
significherebbe consegnarsi mani e piedi alla Cina.
“L’Europa ha tutte le carte in regola per giocarsi la partita. A oggi sono 39 i progetti che stanno nascendo in tutta Europa. Già ora produciamo più della metà delle batterie, non solo per le auto. Possiamo arrivare all’indipendenza nel 2027. È un mercato enorme e c’è spazio per tutti. Lo spauracchio della Cina dipende da come giochiamo le nostre carte”.
Il Pnrr può essere utile per la transizione energetica?
“Il Pnrr è stato un’occasione persa incredibile. L’Italia era già indietro e ha investito meno dell’1% del fondo”.
E infine, altra obiezione che si sente spesso: che fine faranno i lavoratori del mondo dell’auto?
“Timmermans ha detto poco prima di Natale: “The biggest challenge isn’t to create new jobs; it is to train workers to evolve from one job to the other”. La vera sfida non è creare posti di lavoro, ma saper riformare i lavoratori per metterli nei posti giusti”.