Con la nomina di Eugenia Roccella a “Ministra della famiglia, della natalità e delle pari opportunità” del neonato governo Meloni abbiamo visto riaccendersi il dibattito attorno alla legge 194 del 1978 che, disciplinando l’interruzione volontaria di gravidanza, costituisce una conquista per i diritti delle donne da difendere con le unghie e con i denti dagli attacchi che ciclicamente le vengono rivolti.
Attacco frontale alla libertà di scelta delle donne. Con la nomina della ministra Roccella si è riacceso il dibattito attorno alla legge 194
La ministra ha immediatamente chiarito che non è tra i suoi obiettivi la modifica della legge e che la gestione di un capitolo tanto delicato è tra le prerogative del Ministero della Salute, non di certo del suo. Nel 2020 però nessuno è sceso in piazza con la gigantografia a testa in giù dell’allora ministro Roberto Speranza, cosa accaduta con la Ministra Roccella da poco insediatasi, nonostante questo abbia messo nero su bianco le indicazioni per la modifica della legge 194.
Qualcosa non torna, allora. Chi si è unito al grido di “non toccate la 194” per la semplice nomina di un nuovo ministro che non ha né competenze governative né volontà programmatiche di modificare la legge (nonostante affermazioni non felicissime risalenti al suo passato), perché è stato zitto quando ha visto mettere nero su bianco la necessità di un suo cambiamento?
Bisogna lasciarla così com’è questa legge, o va modificata? Chi tutela noi donne nell’assunzione di una decisione tanto delicata e sofferta come l’interruzione di gravidanza Facciamo i conti con la miopia sul tema che coinvolge tanto l’esasperata visione conservatrice di matrice patriarcale, quanto quella libertaria di stampo progressista.
Nel primo caso agisce sotterraneamente il retaggio culturale per cui una donna che pratica la via dell’aborto non è una “buona” donna: non è grata del dono che la vita (o Dio) le ha fatto e liberandosene afferma il suo individualismo fatto di egoismo e superficialità. L’altro approccio alimenta involontariamente l’immagine della donna che vivendo la “maternità come libera scelta” affronta un passaggio di vita in fondo non così tanto traumatico.
In Italia il dibattito non ruota più attorno alla polarizzazione “aborto sì/aborto no”, nonostante esistano rumorose minoranze che occupano la cronaca con slogan ideologici che amano riproporci di tanto in tanto. Da noi la questione dirimente è quanto la donna sia realmente tutelata e sostenuta nel suo diritto (riconosciuto e difeso) di interrompere volontariamente la gravidanza: dall’assunzione di una decisione tanto traumatica, passando per la pratica medica sino a includere la fase successiva all’esecuzione.
Ed è qui che emerge uno dei nodi della questione: l’uso della Ru-486, la pillola abortiva che costituisce l’alternativa all’intervento chirurgico ben più invasivo – dunque traumatico – rispetto alla somministrazione di una un farmaco a uso orale. Il diritto di abortire in un modo o nell’altro (farmacologico o chirurgico) è già riconosciuto dalla stessa legge 194, ma la sanità regionale tende – salvo rare eccezioni – a prediligere la chirurgia alla somministrazione per bocca di un medicinale.
Non si tratta della messa in discussione dell’obiezione di coscienza da parte dei medici dato che l’obiettivo in ambo le pratiche si raggiunge ugualmente: sia che la paziente sia sottoposta a intervento invasivo, sia che le venga prescritto il farmaco, il medico sta inducendo l’interruzione una gravidanza. Si tratta delle modalità mediche, dell’ambiente, dei tempi in cui viene praticato l’aborto a cambiare e tutto ciò per una donna in un momento di così grande vulnerabilità fa la differenza.
Il problema è che il metodo abortivo farmacologico prevede un regime di ricovero ordinario e per le difficoltà organizzative che ne conseguono, solo poche strutture offrono la possibilità di scegliere tra aborto medico e aborto farmacologico non garantendo così il diritto della donna di poter scegliere. La circolare del 2020 che ha per oggetto l’aggiornamento delle linee di indirizzo sull’Ivg farmacologica va proprio nella direzione del superamento di questa difficoltà includendo nei luoghi in cui è possibile praticarla le strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate e funzionalmente collegate agli ospedali, nonché i consultori.
Superato questo limite dell’applicazione della 194, nello specifico dell’articolo 8, possiamo dirci soddisfatti? Se in America nelle elezioni di metà mandato in queste ore vediamo lo scontro tra i “pro-life” e i “pro-choice”, in Francia le cose vanno in una direzione ben diversa e lo scorso febbraio il diritto all’aborto (che vedeva una legge simile alla nostra) è stato rafforzato aumentando a 14 settimane il periodo di gestazione in cui la pratica abortiva volontaria sia ritenuta legale.
Ecco il secondo nodo italiano: il limite temporale aumentano da sette a nove settimane di gestazione grazie alla circolare del 2020, ma che sembra ancora poca cosa per quelle donne che alla decima settimana di gravidanza sarebbero costrette a ricorrere a sistemi illegali che la esporrebbero a rischi che le donne francesi hanno smesso di correre, con grande gioia delle femministe d’oltralpe. Siamo pronti anche noi per questo ulteriore rafforzamento?
Illuminati dalla sola certezza che non possiamo arretrare di un solo millimetro sul piano dei diritti, tra modello trumpiano e modello macroniano: teniamoci stretta la 194!