Il Reddito di cittadinanza non sarà a vita ma sarà rinnovabile per periodi sempre più brevi e con un assegno a scalare. Inoltre chi rifiuterà anche una sola offerta di lavoro perderà il sussidio. È questa la proposta della Lega per modificare il sussidio secondo quanto ha detto al Corriere il sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon.
Il Reddito di cittadinanza non sarà a vita ma rinnovabile per periodi sempre più brevi e con un assegno a scalare
La proposta del Carroccio, secondo Durigon, “è più morbida di altre che circolano nella coalizione, ma si muove nello stesso solco” e il punto di partenza è che “il sussidio non può essere a vita. Va fissato un termine oltre il quale non si può andare, un po’ come con la Naspi”, l’indennità di disoccupazione.
Un percorso “ragionevole”, secondo l’esponente leghista, “prevede, dopo i primi 18 mesi di Reddito, che si possa andare avanti al massimo per altri due anni e mezzo, ma con un décalage”.
Dunque dopo i primi 18 mesi, se la persona non ha trovato un lavoro, viene sospesa dall’erogazione del Reddito di cittadinanza e inserita per sei mesi in un percorso di politiche attive del lavoro. Se dopo tale periodo è ancora senza lavoro, potrebbe ottenere di nuovo il sussidio, “ma con un importo tagliato del 25% e una durata ridotta a 12 mesi”, durante i quali continuerebbe a fare formazione.
Se anche dopo questo periodo il beneficiario non è entrato nel mercato del lavoro, verrà sospeso per altri sei mesi, passati i quali potrà chiedere per l’ultima volta il Reddito di cittadinanza, questa volta “solo per sei mesi e per un importo decurtato di un altro 25%. Prenderà cioè la metà di quanto prendeva all’inizio”.
La riforma del Reddito di cittadinanza proposta dalla Lega prevede, inoltre, che il diritto ad ottenere il sussidio decada rifiutando una sola offerta congrua di lavoro, oggi sono due. Da questa stretta verrebbe colpito “un percettore su tre del Reddito di cittadinanza”, dice Durigon.
“Pensiamo – ha il sottosegretario parlando dei controlli – che il sistema non debba più essere gestito centralmente dall’Inps ma sul territorio dai Comuni, che conoscono meglio le reali situazioni di povertà”.