Duro mestiere quello del pacifista. Già perché al giorno d’oggi, in un mondo diviso in fazioni e sempre più polarizzato in schieramenti contrapposti, è chiaro a tutti che è più facile essere bellicisti. La guerra, infatti, identifica sempre un nemico da battere e la parte giusta in cui schierarsi e consiste nella più semplice risposta, anche psicologica, a fenomeni complessi e che rompono la normalità.
Al suo esatto opposto c’è il pacifismo, inteso come movimento e anche come moto d’anima, che rigetta la contrapposizione granitica tra distinte fazioni e che riconosce che la responsabilità di ognuno è – o almeno dovrebbe essere – quella di ambire a un mondo basato sulla cooperazione anziché sulla contrapposizione.
E in questo il nostro Paese è tra quelli che più di altri ha a cuore l’argomento tanto da averlo messo in Costituzione, per la precisione all’articolo 11, in cui si legge che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Gogna mediatica
In altre parole il pacifismo viene dipinto dalla società odierna come démodé e rivoluzionario, quindi da ghettizzare e stigmatizzare. Un atteggiamento che va avanti da febbraio e che ogniqualvolta è spuntato qualcuno a chiedere il cessate le ostilità e l’apertura del tavolo delle trattative, quest’ultimo è stato puntualmente ridicolizzato. Una gogna – talvolta perfino mediatica – che ha centrato il bersaglio, convincendo i sostenitori della pace a restare in silenzio e, soprattutto, a non invadere le piazze come successo in altre epoche.
Proprio davanti a questa opera di metaforica crocefissione del movimento, non c’è da stupirsi se la prima grande manifestazione contro la guerra in Ucraina arriva oggi, dopo oltre otto mesi di conflitto, e non già dalle prime settimane di ostilità tra russi e ucraini. Del resto il semplice definirsi “pacifista” bastava per essere definiti ignoranti o, peggio ancora, “filorussi”.
La cosa bella è che questa meticolosa opera di criminalizzazione dei contrari alle ostilità non si è limitata ai soli cittadini ma ha toccato perfino il presidente francese Emmanuel Macron – letteralmente l’unico in Europa ad aver tenuto aperti canali diplomatici con Mosca anche al costo di scontentare Joe Biden e gli Stati Uniti – e i leader di partiti politici, tra cui Giuseppe Conte, che hanno osato contestare la linea bellicista di Usa e Ue per chiedere il ritorno al tavolo delle trattative.
Insomma richieste ragionevoli che, però, vengono bollate come irrealistiche e prive di possibili vie d’uscita dal conflitto. Peccato che si tratti di un falso perché i pacifisti ritengono che la soluzione va trovata nel confronto tra le parti in causa mentre i bellicisti, ossia i loro accusatori, non ne propongono nessuna e puntano a far capitolare il nemico.
Dal Vietnam all’Iraq
Eppure il pacifismo un tempo godeva di ben altra considerazione. Milioni di cittadini, infatti, erano capaci di scendere in piazza in tutto il globo per manifestare contro il conflitto di turno e le scelte dei governi coinvolti. È successo diverse volte nel passato come quando il 15 febbraio del 2003 milioni di persone sono sfilate a Roma contro la guerra in Iraq.
Una manifestazione nazionale e senza bandiere di partito – proprio come questa che si terrà oggi e che si spera ridarà lustro al movimento pacifista italiano ed europeo – che fu capace di mettere in discussione il racconto mainstream che circolava in quei tempi e secondo il quale la guerra era inevitabile perché l’allora reggente Saddam Hussein aveva a disposizione uno sterminato arsenale di armi chimiche e batteriologiche.
Una manifestazione che non è stata l’unica visto che da Washington a Tokyo, da Londra a Parigi, quasi l’intero globo ha contestato l’azione militare portata avanti dal governo americano con la partecipazione di molti alleati europei. E quelle proteste non furono fini a sé stesse perché smossero sempre più coscienze, rendendo via via più difficile giustificare l’intervento armato, e contribuirono a fare pressioni sui governi probabilmente accelerando la fine del conflitto.
Ma è riavvolgendo di decenni il nastro del tempo che si arriva al successo più importante conseguito dal movimento pacifista, ossia quando nel mirino dei contestatori era finita la guerra in Vietnam. Un conflitto sanguinoso che ha spinto, a partire dal 1964 e per diversi anni a seguire, sempre più cittadini a scendere in piazza per protestare contro un intervento armato ritenuto scellerato.
Manifestazioni, cortei e sit-in, che poco alla volta hanno ingrossato le fila dei partecipanti generando una pressione costante nei confronti del governo statunitense, sempre più in difficoltà nel giustificare e nel portare avanti l’intervento armato. Insomma questi moti popolari non hanno portato alla fine del conflitto, durato fino al 1975, ma sicuramente hanno dimostrato come semplici cittadini possono dire la propria su argomenti tanto complicati come la guerra e su cui – almeno secondo il credo popolare – non avrebbero voce in capitolo.
Invece proprio le proteste di quegli anni hanno dimostrato come è vero l’esatto opposto, ovvero che i potenti non sono immuni al volere popolare se questo viene espresso da una larga maggioranza di persone. Non solo. Proprio quel conflitto, tra mille atrocità, ha portato all’affermazione del movimento pacifista globale che ora più che mai deve tornare a far sentire la propria voce, in massa, per fermare un conflitto, quello in Ucraina, che rischia di degenerare da un momento all’altro.