Si è proposto come l’argine al populismo, basando tutta la campagna elettorale sullo slogan della serietà (che dovrebbe essere qualità riconosciuta dagli altri, vabbè) ma Carlo Calenda è tecnicamente il politico più populista di questa campagna elettorale. Ieri è andato in tour elettorale nella sua Roma.
Carlo Calenda è tecnicamente il politico più populista di questa campagna elettorale
Populista già l’intenzione: “Se mostro che la città governata dal Pd è sporca sottintendo che non sarebbero capaci di governare l’Italia”. Una mossa di marketing, niente di politico, roba che sembra uscita da una serie televisiva, mica da una campagna elettorale “tra la gente”.
Ha ragione il Partito democratico quando gli ricorda che “è stato eletto al Parlamento europeo proprio grazie ai voti del Partito democratico e tantissimi militanti si sono adoperati per la sua elezione”, e che fino a qualche settimana fa Calenda era con loro in “un’alleanza che lui stesso aveva scelto e voluto” e che si è “dimesso alla prima seduta utile, abdicando a tutte le battaglie che poteva condurre personalmente per Roma”.
Primo comandamento del populismo: abolire la memoria, per potersi rivendere sempre come nuovi. Poi Calenda si sofferma sui poveri. Lo fa con una carrellata della telecamera su qualche disperato accampato in mezzo alle frasche, indicandolo con un dito identico a quello di Matteo Salvini quando suona il citofono di un quartiere popolare alla ricerca dello spacciatore.
Non c’è nulla di diverso tra i due: entrambi evidenziano un problema per trasformarlo in fobia e rivendersi come unici possibili risolutori. Quello lo fa con i neri e gli spacciatori Calenda invece è all’affannosa ricerca di poveri, meglio ancora se rivendibili come nullafacenti.
Cambia l’abbigliamento (la “felpa” di Calenda è la divisa da manager sceso tra “il popolo” per il bene del Paese) ma alcuni tratti sono identici: come Salvini anche Calenda osserva la povertà con guardo altero, distante, senza nessuna partecipazione emotiva, con malcelato disprezzo. Non c’è in Calenda nessuna riflessione sulle cause delle disumane condizioni del povero.
Bisogna solo spostarlo di lì (non parla di ruspe ma lo slancio è lo stesso): la povertà è un attacco al decoro, una macchia sul paesaggio (che deve essere lindo per il prossimo Giubileo). Peccato che il Giubileo dovrebbe essere proprio un’occasione per “volgere lo sguardo ai poveri”, come recita il Vangelo. Tecnicamente un video che addita i poveri (o gli stranieri, è la stessa cosa) si può definire “sciacallaggio”.
Non è diverso dallo sciacallaggio che da mesi avviene sulla pelle dei percettori del Reddito di cittadinanza solo che in questo caso sta lì, compresso in un video. Chi da anni racconta i poveri come un danno al decoro e un pericolo per la sicurezza pubblica? I populisti di destra, proprio loro.
Gli stessi che Calenda dice di voler sconfiggere con la sua presunta serietà. E scagliandosi contro i “populisti di destra” e i “populisti di sinistra” Carlo Calenda dimostra di avere anche un’altra fondamentale caratteristica dei populisti: l’antipolitica. Quello di Calenda non è il populismo classico di chi invoca l’unità del popolo contro presunte “élite” ma è il populismo delle élite che chiedono di allearsi contro il popolo. Per questo occorre mostrarlo in tutte le sue pieghe più fastidiose. Del resto è facile in un Paese ormai preda dell’aporofobia trovare elementi che aumentino il disgusto verso i poveri.
Pensateci, proporre un uomo come “mito” e dichiararsi sacerdoti delle sue gesta cos’è? Populismo, finanche infantile. L’agenda Draghi è la nuova Padania, concetto fantastico (e quindi inesistente) da sventolare come tratto identitario.