Le difficoltà di Matteo Salvini si evincono anche dalla necessità che avverte di mettersi a rincorrere l’alleata-avversaria Giorgia Meloni sul suo stesso terreno. È indubbio che in questi ultimi giorni la numero uno di Fratelli d’Italia abbia dismesso i panni della leader moderata e istituzionale indossati nel corso della campagna elettorale, addirittura convergendo con il premier Mario Draghi sulla sconvenienza di procedere a uno scostamento di bilancio.
Dal Papeete in poi Salvini ha sempre perso consensi. Con un nuovo calo sarà impossibile restare alla guida della Lega
Sintonie che bolla ora come semplici coincidenze mentre si lancia con un piglio aggressivo a criticare il premier uscente. Allo stesso modo Salvini si ritrova ad alzare i toni proprio con l’ex banchiere. Per quest’ultimo, afferma con durezza il leader leghista, “non ci sono ruoli nel futuro eventuale governo” di centrodestra.
E lo incalza, sempre in maniera ruvida, a fare i nomi di quanti tra imprenditori, giornalisti o politici corrotti prendono soldi dall’estero. “Se il presidente del consiglio sa, e lo ha detto in diretta televisiva, che qualcuno è corrotto o pagato dall’estero, da italiano non sono tranquillo e vorrei saperlo”. Ma Salvini non deve fare i conti solo con una fronda, diciamo esterna, ma anche con una interna.
Pontida ha segnato il ritorno della Lega alle origini in chiave federalista e nordista
Si può dire che il raduno di Pontida di domenica abbia segnato una svolta. I presidenti di Regione, da Luca Zaia (Veneto) a Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia Giulia), hanno fatto capire che sull’autonomia non intendono fare sconti a nessuno. “L’autonomia vale anche la messa in discussione di un esecutivo”, ha detto Zaia. Ma l’avvertimento non è solo agli alleati di centrodestra suona più che altro come una diffida allo stesso Salvini.
“Il 98,1 per cento dei veneti vuole l’autonomia, Salvini ormai semo strachi. Ragionaci sopra”, recitava uno striscione esposto sul sacro prato. E non è un caso che Zaia e Fedriga siano tra i papabili candidati alla successione dell’attuale segretario. Eh già perché, se le elezioni del 25 settembre dovessero consegnare una Lega in caduta libera, allora sì che si aprirà la resa dei conti interna al partito.
Fatto sta che Pontida ha segnato il ritorno della Lega alle origini in chiave federalista e nordista. Con il riaffacciarsi anche da un punto di vista lessicale dello spirito secessionista di un tempo con i veneti che vogliono essere padroni in casa propria e il mai sopito rancore verso il Sud corrotto e fannullone. Una svolta che Salvini, pressato dai suoi governatori, ha dovuto necessariamente sposare spingendosi a lanciare il guanto di sfida alla Meloni che batte invece sul presidenzialismo.
“La riforma del sistema presidenziale è una delle riforme su cui lavoreremo. Ma penso sia più urgente e necessaria la concessione di una maggiore autonomia alle Regioni, che può essere approvata senza modificare la Costituzione”, ha detto il leader leghista. Ma la svolta in chiave federalista e nordista rischia di rivelarsi un boomerang. Infatti se, da una parte, tiene buoni i governatori, dall’altra, segna una chiara involuzione e un regresso, chiudendo la parentesi della Lega nazionale quando il partito arrivò a sfondare il 34% nelle Europee del 2019.
Ecco perché Salvini tenta di riequilibrare il tutto lanciandosi in promesse dal vago sapore berlusconiano. Come quella di eliminare il canone Rai. Eppure, nonostante le difficoltà certificate dal calo nei sondaggi, Salvini continua a nutrire il sogno di varcare il portone di Palazzo Chigi. “Se gli italiani daranno alla Lega un voto in più di tutti gli altri per me sarebbe un onore fare il presidente del consiglio e governare questo straordinario e unico paese, che è il più bello al mondo, dove crescere i propri figli. Aspetto la fiducia dal voto degli italiani di domenica”. O la certificazione della sua disfatta. Si vedrà.