Trattative in extremis, telefoni che squillano senza sosta e, alla fine, la doccia fredda che avvicina pericolosamente la crisi di governo. Si è concluso in un nulla di fatto il tentativo in extremis del ministro M5S per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, per tentare una mediazione al fine di evitare il voto di fiducia sul decreto Aiuti.
Malgrado l’accordo raggiunto nella maggioranza tra i capigruppo parlamentare, quando la parola è passata a Mario Draghi, è arrivato lo stop definitivo a questa iniziativa.
Eppure l’accordo non avrebbe messo in pericolo il dl Aiuti perché prevedeva il ritiro degli emendamenti presentati in Aula dal Movimento 5 Stelle e, contestualmente, il voto articolo per articolo dell’intero provvedimento. Uno scenario che avrebbe permesso ai pentastellati di votare soltanto le norme gradite, escludendo quindi sia quelle sul Reddito di cittadinanza che quella sull’inceneritore di Roma, lasciando la loro approvazione al resto della maggioranza.
Inoltre sarebbe stata scongiurata la crisi dell’esecutivo Draghi proprio per l’assenza del voto di fiducia.
Trattative in extremis per salvare il governo ma Draghi si mette di traverso
A questo punto è chiaro che la responsabilità della crisi non può essere addebitata al Movimento e a Giuseppe Conte. Questo perché i pentastellati hanno fatto davvero di tutto per evitarla. Il primo passo c’è stato con la consegna di un documento in nove punti al premier contenenti richieste di buon senso – come l’istituzione del Salario minimo, la difesa del Reddito di cittadinanza e il taglio del Cuneo fiscale – per affrontare al meglio la crisi che sta flagellando l’Italia.
Da Palazzo Chigi, però, la reazione è stata piuttosto tiepida e Supermario si è limitato a dire: “Quando ho letto il documento di M5s ho trovato molti punti di convergenza con l’agenda di governo. I temi discussi con i sindacati sono in quella direzione. Sono punti che era necessario comunque sollevare. Tra le organizzazioni sindacali c’è l’accettazione dell’ipotesi di salario minimo. C’è una convergenza”.
Ma a parte queste parole al miele, di impegni concreti da parte di Draghi non c’è traccia. A spiegarlo è il leader pentastellato che ha spiegato che nell’incontro con il premier “registro la disponibilità del presidente a venirci incontro su tutti i punti, però è evidente non bastano dichiarazioni di intenti. Occorrono concrete azioni perché i cittadini possano sentire nelle loro tasche gli effetti di queste misure”.
“Chiediamo di entrare in una fase di governo completamente differente. C’è una recrudescenza del Covid e anche per il Pnrr occorrono una serie di interventi legislativi”, in quanto si “registrano ritardi. Abbiamo preteso un cambio di passo del governo nell’esclusivo interesse dei cittadini”.
Insomma a conti fatti, se crisi sarà la colpa non può che essere di Supermario che non ha risposto alle istanze pentastellate e in Senato è voluto andare allo scontro frontale.
Il dietrofront di Letta
In tutta questa storia non può che stupire la posizione di Enrico Letta. Dopo l’ufficialità che M5S non avrebbe votato la fiducia al Senato, il segretario dem ha mostrato i muscoli: “Chiederemo di fare una verifica per capire se questa maggioranza c’è ancora o no”. Questo perché è “evidente che la scelta annunciata da Conte e dal M5s rimette in discussione molte cose, e in una maggioranza così eterogenea ci sono dei distinguo. Ma io non mi preoccupo, esiste il voto di fiducia che è fondamentale”.
“Se il M5S fa cadere il governo, si va al voto. Lo dico sommessamente, perché non voglio che sia interpretata come una ripicca. È nella logica delle cose” ha spiegato Letta.
Peccato che si tratti dell’ennesimo bluff perché, puntuale come un orologio svizzero, dopo poco ha corretto il tiro spiegando che “siamo disponibili alla continuazione di questo governo Draghi, non siamo disponibili a tirare avanti purchessia. Se non ci saranno le condizioni, se altri partiti della maggioranza si sfileranno, allora la parola passerà agli italiani e noi saremo pronti ad andare di fronte agli italiani con le nostre ragioni e il nostro progetto per il futuro dell’Italia”.
Se non fosse già piuttosto chiaro il dietrofront, lo ribadisce poco dopo: “Si è aperta una fase in cui gli ultimi nove mesi di vita di questa legislatura possono essere proficuamente utilizzati per la lotta alla precarietà, il salario minimo, la riduzione delle tasse sul lavoro. Lì (in Parlamento, ndr) noi andremo a dire che siamo disponibili a una continuazione di questa esperienza di governo, con questa svolta sociale”.
La posizione di Salvini e i timori di Forza Italia
Come se non bastasse, ad aggiungere fibrillazioni nella maggioranza ci pensa il Centrodestra. Se la posizione di Giorgia Meloni è da sempre quella di ritornare alle urne, nelle ultime ore a spingere in questa direzione è anche – e soprattutto – Matteo Salvini.
Ma la posizione del segretario del Carroccio non piace né all’ala governista del partito, capitanata dal ministro Giancarlo Giorgetti, né ai governatori leghisti. Tutti loro, infatti, ritengono necessario andare avanti con il governo dei Migliori anche in caso dell’uscita dalla maggioranza da parte del Movimento 5 Stelle.
Eppure su Salvini, da tempo in cerca di voti e che secondo molti sta scimmiottando la Meloni, il pressing non finisce di certo con gli uomini del suo stesso partito. In queste ore, infatti, è forte il tentativo da parte degli alleati di Forza Italia – che stanno facendo un’operazione simile a quella del Partito democratico nei confronti del Movimento 5 Stelle – per smorzare i toni e trovare un’intesa ad ogni costo capace di salvare il governo e magari di lasciare fuori M5S.
“Conte sta giocando una partita personale a scapito degli italiani. Se Salvini lo assecondasse trascinando il Paese alle urne sarebbe suo complice, mantenga la schiena dritta e continui a sostenere il Governo. Draghi non deve fare un passo indietro, sarebbe da irresponsabili”. È quanto scrive su Twitter Gabriella Giammanco, senatrice di Forza Italia.