Dalla Colombia all’Europa, per inondare di cocaina le principali piazze di spaccio del vecchio continente. Questo il colpo inferto dal procuratore capo di Trieste, Antonio De Nicolo, a una maxi banda di narcos composta da ben 38 persone. Tutti loro sono accusati di reati pesantissimi tra cui il traffico internazionale di sostanze stupefacenti.
Un blitz davvero imponente, come dimostra il contestuale sequestro di ben 4,3 tonnellate di droga purissima, che presto potrebbe diventare un lontano ricordo. Già perché se passasse il referendum “questi arresti non si potrebbero più fare”, anzi “gli arrestatati dovrebbero essere messi in libertà con tante scuse del popolo italiano” visto che “questa è la norma che si intende abrogare”. Qualcuno potrebbe pensare che a pronunciare parole simili sia qualche politico contrario ai quesiti referendari sulla Giustizia promossi da Lega e Radicali, ma la realtà è che a parlare così è proprio il procuratore De Nicolo che ha fatto gli arresti.
Insomma una persona che mastica il mestiere, sapendo bene di cosa parla, che a pochi giorni dal voto non fa nulla più che sollevare un dubbio legittimo, per giunta condiviso anche da molti altri esperti, sugli effetti devastanti che l’approvazione di questo referendum potrebbe sortire. A suo parere, infatti, “le misure cautelari cadrebbero tutte. Reati come il traffico di droga, a prescindere dalle quantità anche mostruose, non vengono eseguiti in violenza alla persona e quindi ricadrebbero nell’alveo abrogativo del referendum”.
Scoppia la polemica sul referendum
Un punto di vista che non è piaciuto a Riccardo Magi, Presidente e deputato di +Europa, secondo cui “è di gravità inaudita quanto detto dal Procuratore Capo di Trieste che interviene nella campagna referendaria in corso fornendo informazioni false all’opinione pubblica e condizionando quindi il libero convincimento dei cittadini italiani sull’espressione del voto”. Per questo Magi, invocando l’intervento della ministra Marta Cartabia, conclude affermando che “il Procuratore opera una mistificazione della realtà e del senso stesso del Referendum che non eviterebbe affatto il ricorso alla custodia cautelare in casi di reati di criminalità organizzata, tantomeno di traffico internazionale come in questo caso”.
Dalla Colombia all’Italia, l’operazione
Quel che è certo è che l’intera indagine è stata lunga e delicata. Del resto nel tempo i narcos hanno affinato tecniche e sistemi per eludere il lavoro dei magistrati italiani che, come accade in casi simili, hanno collaborato con i colleghi colombiani e statunitensi. Il primo passo di quest’inchiesta è stata l’individuazione di grossisti e degli addetti al trasporto che, per quanto riguarda l’Italia, facevano riferimento a gruppi della criminalità organizzata attivi in Calabria, Lazio, Lombardia e Veneto.
Da questi ‘pesci piccoli’, utilizzando diversi agenti infiltrati è stato possibile arrivare ai vertici sudamericani di questo immenso traffico di stupefacenti. E grazie al lavoro dei poliziotti sotto copertura, non è stato soltanto ricostruito il percorso compiuto dai corrieri della droga ma è stato possibile perfino mettere in piedi una trappola che ha messo in scacco i narcotrafficanti. Quest’ultimi, infatti, da tempo cercavano un porto sicuro in Italia.
Un’indiscrezione che non è sfuggita agli agenti infiltrati che a quel punto hanno avuto l’idea di creare un finto hub nel porto di Trieste, con tanto di magazzini fasulli. Una struttura che è subito piaciuta ai narcos convinti di aver trovato un luogo a prova d’indagine ma che, in realtà, erano finiti in una trappola proprio da parte dei magistrati.