di Francesco Verderami dal Corriere della Sera
Non è uno strumento di pressione né tantomeno un’arma di ricatto, perché a Berlusconi era chiaro che il Pd non avrebbe mosso un dito per salvarlo dalla decadenza, tanto più ora che prepara l’Aventino. Più banalmente la decisione presa ieri è il riflesso istintivo di chi si sente perso e finisce per perdere anche quel che aveva conquistato nelle durissime sfide del Quirinale e del governo: il centro del ring politico. Ora dal ring il Cavaliere ha deciso di scendere, scorgendo proprio in Napolitano il suo più acerrimo nemico – così lo definisce – «perché è lui che mi vuol fare condannare». Ormai senza più freni inibitori, si trascina appresso un partito dilaniato dagli appetiti di potere, e dove – pur di non perdere posizioni – sono state le colombe a trasformarsi in falchi nell’ultimo vertice di palazzo Grazioli, precipitando una decisione che sarebbe dovuta maturare dopo il voto del 4 ottobre con cui il Senato accompagnerà il leader del centrodestra alla porta del Parlamento.
Eppure era stato Berlusconi, ancora fino alla scorsa settimana, a frenare l’impeto di chi voleva far saltare subito il banco, spiegando che «se facessi cadere il governo mi metterei contro il Quirinale, i poteri forti con i loro giornali, il Wall Street Journal , il Financial Times . E pure quelli del Ppe direbbero che avevano ragione a non fidarsi di me». Ma i fantasmi che non lo fanno dormire di notte hanno preso infine il sopravvento, e le ombre di nuovi provvedimenti giudiziari avversi si sono fatte carne quando gli hanno riferito che la procura di Milano avrebbe pronte numerose richieste di misure cautelari contro le «Olgettine», che si sarebbero macchiate di falsa testimonianza al processo Ruby pur di salvarlo dalla condanna. È stato a quel punto che non ci ha visto più. E ha tratto il dado. Il modo in cui l’ha fatto è stato se possibile più dirompente della stessa decisione, perché – scardinando le regole istituzionali – non ha preannunciato la scelta nemmeno al Quirinale. D’altronde, con il capo dello Stato – considerato il regista della congiura – i rapporti si erano ormai interrotti, e il tentativo di Napolitano di riavviare il dialogo, chiamando Alfano al Colle, non ha avuto effetto. Un indizio si era potuto cogliere già ieri mattina, alla festa organizzata in Rai per i novanta anni di Zavoli, e dove è stato notato come il presidente della Repubblica – premuroso con tutti gli ospiti – si è scambiato solo un gelido saluto con Gianni Letta.
Il botto ha preso alla sprovvista anche la delegazione dei ministri del Pdl, se è vero che Alfano ha saputo dell’accelerazione a cose fatte, di ritorno dalla sua visita in Piemonte al cantiere dell’Alta velocità. E il colloquio con Enrico Letta – dall’altra parte dell’Atlantico – è stato quasi una sorta di commiato. Perché il premier sa di non avere margini di manovra, sa che i falchi che militano nel Pd si accingono a chiedergli un gesto «per salvare l’onore tuo e del tuo partito». È un gioco scoperto, l’ha spiegato al suo vice prima di prendere la parola all’Onu, confidando che la riunione dei gruppi parlamentari del Pdl non ufficializzasse la decisione: «Angelino, se scoppia il casino io mi dimetto anche ad qui». Un’estrema forma di pressione, questa sì, che non poteva produrre effetti. E così è stato. Di qui la scelta del presidente del Consiglio di far finta di nulla, in attesa degli eventi. Perché ora bisognerà capire quanto potrà andare avanti la messinscena, ché di questo sotto il profilo tecnico si tratta, se è vero che le dimissioni dei parlamentari non provocano la crisi di governo né producono vuoti nelle Camere, siccome è previsto il subentro dei primi non eletti. Perciò Napolitano – che è il destinatario dell’offensiva politica – vuole smascherare i berlusconiani, caricati ieri sera da un capo che ha evocato il voto e la vittoria, sebbene tutti in quella sala – tra applausi e dimostrazioni di fedeltà – sapessero che tra un paio di settimane il Cavaliere sarà fuori dal Palazzo e che non avrà le urne.
In realtà, il primo a saperlo è proprio il Cavaliere, e non solo perché l’assenza di una riforma elettorale è garanzia di sopravvivenza della legislatura, ma soprattutto perché glielo ripetono settimanalmente i suoi amatissimi sondaggi, a mo’ di filastrocca: il Paese non vuole la crisi, il Pdl pagherebbe duramente il conto della crisi, la crisi non risolverebbe comunque i suoi problemi giudiziari mentre acuirebbe i problemi sociali. Ma non c’è verso, almeno così sembra, per placare l’ansia di chi si sente ormai braccato e vittima di una «operazione eversiva», e che – vellicato da quanti nel Pdl temono per il proprio futuro – sembra aver deciso di indossare l’armatura e teorizza una «insorgenza civile», chiama a raccolta i parlamentari e dice loro: «Servono dimostrazioni di massa, dovete pacificamente portare la gente per le strade, nelle stazioni, negli aeroporti, per denunciare la perdita della democrazia». Toccherebbe al titolare dell’Interno la gestione dell’ordine pubblico, se non fosse che Alfano – prima di questo problema – ne ha un altro, tutto politico, a lui evidente senza che Schifani ieri sera lo enunciasse rispondendo a una domanda dei cronisti: «Le dimissioni dei ministri dal governo? Chiedetelo a loro».
È scontato che il voto del Senato sulla decadenza di Berlusconi porrà i ministri dinnanzi a una scelta che appare scontata, e che stravolge lo schema fin qui previsto, quello del partito di lotta e di governo, che tiene un piede nell’esecutivo, attacca il Pd sull’economia e lo stressa per verificarne la tenuta in vista del loro congresso. Così invece il Pdl si assumerebbe la paternità della crisi. Ma tant’è. «Siamo un partito – dice Alfano – che non farà l’errore dei partiti della Prima Repubblica. Noi non ci divideremo, resteremo stretti attorno al nostro leader». Berlusconi esorta i suoi parlamentari all’«estremo sacrificio»: «Abbiamo contro tutti. Siamo solo noi e dieci milioni di elettori». Delle larghe intese restano macerie, è il Cavaliere a citare il de profundis: «Quelli del Pd dicono che l’alleanza con noi è contro natura e se ne vergognano. Ci dovremmo vergognare noi di loro». Fine.