di Vittorio Pezzuto
Come capita spesso da quando siamo usciti in edicola, La Notizia ha aperto ieri la sua prima pagina con una storia esclusiva: quella del nuovo orientamento della Corte dei Conti dove iniziano a piovere condanne sui magistrati che, prendendosi tempi biblici per concludere processi o depositare motivazioni di sentenze, vengono chiamati a risarcire il Ministero della Giustizia delle somme che lo stesso dicastero di via Arenula è costretto a elargire a quanti vengono indennizzati perché vittime della giustizia-lumaca. Nell’articolo del nostro Clemente Pistilli abbiamo così dato conto di diverse sentenze che – sia pure per importi di poco conto – appaiono un monito significativo e tangibile per tutte le toghe italiane, dal momento che lo Stato (e quindi tutti noi cittadini) spende ogni anno oltre venti milioni per i cosiddetti equi indennizzi: i risarcimenti appunto di quanti hanno atteso anni per il pronunciamento di un Tribunale. Ci sembrava insomma una notizia importante per quanti sostengono da tempo la necessità indifferibile di ricondurre i magistrati – che, ricordiamolo sempre, altro non sono che dipendenti pubblici – a quel principio di responsabilità per i loro errori che vincola tutti gli altri professionisti. D’altronde quello giudiziario non è un potere ma un ordine. E i suoi appartenenti sono chiamati (o almeno dovrebbero) all’applicazione serena, equilibrata e imparziale delle leggi decise dai poteri legislativo ed esecutivo. L’indipendenza dei magistrati è un bene essenziale. Ma perché non sconfini nel libero arbitrio devono anche loro subire il salutare contrappeso del principio di responsabilità personale in caso di errore. Non si tratta di un’aspirazione astratta: amministrare la giustizia è compito alto e delicatissimo, ne va della vita dei cittadini e delle aziende. Per questo abbiamo seguito con attenzione la campagna di raccolta delle firme in calce ai referendum radicali: ci sembra un buon metodo per uscire dallo sterile scontro fra fazioni che irretisce il Parlamento e per offrire ai cittadini il diritto a decidere al posto dei partiti. Tutto ciò premesso, aprire ieri con il titolo “Giustizia negata, finalmente i giudici pagano” sembrava una scelta controcorrente e marginale. È invece è stata implicitamente sottolineata con l’improvvisa notizia dell’apertura da parte della Commissione europea di una procedura di infrazione contro l’Italia per i limiti posti alla responsabilità civile dei giudici nell’applicazione del diritto europeo. Si è così subito riaperto il dibattito. La speranza è che non sia inutile, che sul punto si legiferi presto e bene. Altrimenti ci toccherà riaprire il portafoglio e rassegnarci a una giustizia negata.
Raffaele Della Valle: “Giustizia corporativa e politica schizofrenica”
È soddisfatto ma anche un poco sorpreso l’avvocato Raffaele Della Valle, legale di Enzo Tortora e già vicepresidente della Camera. La decisione della Commissione europea di aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia per i limiti posti alla responsabilità civile dei giudici nell’applicazione del diritto europeo viene letta come «un colpo ben assestato all’eccessivo corporativismo dei nostri magistrati. Il messaggio è chiaro: il dolo e la colpa grave sono criteri troppo riduttivi, soprattutto se si guarda alla legislazione che disciplina la responsabilità nell’esercizio delle altre professioni. Tra colpa grave e colpa lieve esiste infatti tutta una gradazione che deve essere tenuta presente: il danno al cittadino può essere prodotto anche per effetto di una colpa che non è grave in senso giuridico ma che comunque ha una sua consistenza. Detto questo, l’affermazione di questo principio non è certo la panacea di tutti i mali».
In che senso?
«Vede, il magistrato che sbaglia viene oggi colpito al massimo da sanzioni di natura amministrativa. Ma in questo modo può continuare come prima a commettere errori perché sa che a pagare è soltanto la compagnia assicurativa con la quale ha stipulato a suo tempo una polizza. Occorre invece che venga sanzionato anche sotto il profilo disciplinare».
Non è un compito del Csm?
«Ma figuriamoci. Qui si tratta di prevedere l’istituzione di un organo davvero terzo e imparziale che sia composto da magistrati, avvocati, professori universitari e operatori del diritto. Il Csm in questi anni è stato soltanto il baluardo della corporazione. Non può essere certo l’attore di una profonda rivisitazione del principio di colpa e della stessa responsabilità disciplinare. Vorrei però aggiungere qualcosa che non viene mai ricordato…».
Dica pure.
«Ho fatto parte della Commissione Nordio che, ereditando a sua volta gli esiti della Commissione Pagliaro, ha lavorato dal dicembre 2001 fino al 2006 per redigere completamente la legge delega e anche l’articolato del nuovo codice penale. Abbiamo consegnato il nostro lavoro all’allora ministro della Giustizia Castelli e da quel momento non ne abbiamo saputo più nulla. Immagino che il tutto sia rimasto chiuso in qualche cassetto di via Arenula. La stessa sorte è toccata anche agli atti finali della successiva commissione Pisapia. Da allora il Parlamento ha poi addirittura rinunciato a qualsiasi apporto dei tecnici, illudendosi che per varare riforme sia sufficiente il mantenimento di precari equilibri politici. Assistiamo così a interventi a macchia di leopardo sotto la pressione di un’opinione pubblica per definizione mutevole. Pensiamo alla prescrizione: viene allungata o ristretta a seconda delle singole vicende giudiziarie. Abbiamo insomma legislatori schizofrenici che rincorrono il fatto contingente, che sono privi di una visione complessiva della nuova società, che non affrontano con freddezza e raziocinio i problemi generali dettando norme che possano durare per 40-50 anni. Tutto questo non fa che aumentare la confusione. Succede così che nel decreto Milleproroghe ti ritrovi a sorpresa una legge di diritto penale sostanziale o processuale che riguarda una determinata materia. Adesso poi vanno di moda le leggi-manifesto…»
Ad esempio?
«Ad esempio quella sul femminicidio è frutto dell’invenzione di un reato specifico e ha profili di incostituzionalità perché stabilisce una disparità di trattamento tra uomo e donna. L’articolo 575 del codice penale già punisce chiunque uccida un uomo. Inteso come persona, ovvio, ma forse qualcuno non l’aveva capito bene. E che dire dell’introduzione della fattispecie di omicidio per incidente stradale? Bastava applicare le leggi già esistenti. Il problema è che in Parlamento ci stanno persone che non sanno nemmeno cosa sia un tribunale…»