La Sveglia

Da Dell’Utri a Cuffaro vasa vasa. La Sicilia è sempre roba loro. I protagonisti della stagione delle stragi ancora in sella. E di nuovo in corsa per ottenere poltrone e potere

Non che lo sapesse, Giovanni Falcone per primo, che la Sicilia in tema di mafia è la regione in cui la sfacciata impunità, addirittura l’esibizione della propria vicinanza alla mafia, sono posture che vengono sventolate senza nemmeno un briciolo di vergogna.

Una cosa è certa: se Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro avessero assistito alle tensione che hanno accompagnato le commemorazioni per il trentennale della loro morte probabilmente avrebbero avuto un moto di scoramento.

In Sicilia i protagonisti della stagione delle stragi sono ancora in sella. E di nuovo in corsa per ottenere poltrone e potere

Non che lo sapesse, Giovanni Falcone per primo, che la Sicilia in tema di mafia è la regione in cui la sfacciata impunità, addirittura l’esibizione della propria vicinanza alla mafia, sono posture che vengono sventolate senza nemmeno un briciolo di vergogna. Falcone e Borsellino non avrebbero mai potuto immaginare, nemmeno con il peggiore pessimismo, che quel Marcello Dell’Utri che compariva tra le loro carte mentre cercavano di ricostruire i rapporti tra Cosa Nostra e la politica nazionale ancora oggi possa essere ritenuto un affidabile interlocutore che dà le carte per la politica cittadina e regionale.

E forse più di tutto sarebbero feriti da come tutto questo avvenga all’interno di una politica narcotizzata, incapace di avere un minimo sussulto di dignità. Una commemorazione che ricorda una storia senza avere voglia di raccontarla per intero e senza il coraggio di valutarla sul presente è una cerimonia vuota, muta che certifica come la lotta alla mafia sia una riga buona da scrivere in campagna elettorale e poco di più.

Del resto nella Sicilia di Giovanni e Paolo è accaduto perfino che un presidente della Regione in odore di mafia, com’era Totò Cuffaro prima di essere condannato in via definitiva, abbia avuto il coraggio di insozzare la città con la sua faccia che urlava “la mafia fa schifo” nel maldestro tentativo di ripulirsi. In Sicilia (e in tutta Italia) accade così: ci si dichiara innocenti additando gli accusatori come malelingue, si nega l’esistenza della mafia per disarticolare le analisi di chi ha ancora la voglia di indagare sul malaffare, poi si chiama “equivoco” la natura dei propri rapporti quando non sono più negabili e infine si sminuisce tutto come un semplice “errore”.

Il processo di minimizzazione e di normalizzazione della mafia permette infine di riemergere come puliti nel giro di qualche anno. Chissà che ne direbbe Falcone di un’elezione nella sua città in cui Cuffaro si sente talmente forte da riproporre la sua faccia e il suo nome addirittura con una lista a sostegno di un candidato sindaco. Chissà cosa ne direbbe Falcone di Dell’Utri ancora dirigente politico, stimato e temuto da politici in carica che incontra e indirizza alla luce del sole.

Dice un antico adagio gattopardesco che “bisogna cambiare tutto perché nulla cambi” ma in Sicilia siamo già alla fase successiva: non cambia nulla perché nulla cambi. Non c’è nemmeno bisogno di fingere, di simulare legalità o di fingere un po’ di contrizione. Avere sulle spalle una condanna di mafia oggi è semplicemente un punto del proprio curriculum da offrire in campagna a elettorale.

E non è un caso che il giudice Corrado Carnevale abbia l’impudenza di dire, proprio nel giorno del trentennale della sua morte, che “Falcone è stato esaltato al di là dei suoi meriti effettivi”, parlando di lui come di un portatore di “una campagna ideologica” ispirata “dal desiderio di fare carriera”. Se l’antimafia viene raccontata un accanimento politico (accusandone uno dei suoi interpreti migliori) significa che il limite della decenza ormai è superato.

Non siamo più nemmeno il Paese in cui nei giorni della memoria e del dolore i nemici di Falcone avevano almeno la creanza di ritirarsi in un rispettoso silenzio. E poiché la mafia è tutt’altro che sconfitta (lo dimostrano le armi che tacciono perché non c’è nemmeno bisogno di violenza per continuare a fare affari) i segnali contano eccome: un trentennale pieno di fango come quello a cui abbiamo assistito ieri è la fotografia di una decadenza morale politica che riporta agli anni più bui.

La propaganda mafiosa (se esistesse il reato di favoreggiamento culturale alla mafia avremmo pezzi di classe dirigente sotto indagine) è tornata prepotente a farsi sentire. Maria Falcone dice che le parole di Carnevale (“che passerà alla storia solo come l’ammazzasentenze”) sono una medaglia. Ma le medaglie da appuntare al petto, in questo trentennale, sono troppe e troppo preoccupanti.