#Senzagiridiboa è un hashtag lanciato sui social da cinque giornaliste come risposta alle parole polemiche della stilista ed imprenditrice Elisabetta Franchi. Ecco di cosa si tratta.
#Senzagiridiboa, cosa vuol dire
La stilita e l’imprenditrice Elisabetta Franchi nei giorni scorsi era finita in una bufera mediatica per alcune sue dichiarazioni in un’intervista a Il Foglio. La stilista ha dichiarato di non assumere donne sotto i quarant’anni: “Faccio una premessa. Io le donne le ho messe ma sono anta, ancora ragazze ma ragazze cresciute. Se dovevano sposarsi si sono già sposate, se dovevano far figli li hanno fatti, se dovevano separarsi hanno fatto anche quello. Diciamo che io le prendo dopo i quattro giri di boa. Sono tranquille e lavorano H24″.
Dopo queste parole, non ci sono state solo le polemiche ma ne è nato qualcosa di più. In particolare, cinque ragazze, alle quali se ne sono aggiunte poi tante altre, hanno lanciato un hashtag: #Senzagiridiboa. Questo è uno slogan che racchiude le parole citate dalla stilista durante il suo intervento.
Qual è la battaglia dietro questo hashtag
L’iniziativa è stata lanciata da cinque giornaliste Sara Giudice, Giulia Cerino, Francesca Nava, Valentina Petrini e Micaela Farrocco alla quale si sono unite altre giornaliste, attiviste e scrittrici, mamme e no, per protestare contro le dichiarazioni dell’imprenditrice.
In un lungo comunicato, le giornaliste hanno raccontato e spiegato la loro battaglia dopo le parole della stilista Elisabetta Franchi. Un movimento che continua a crescere con il passare delle ore.
“Abbiamo deciso – si legge nel comunicato – di lanciare una campagna che racchiude in un hashtag i quattro giri di boa citati da Elisabetta Franchi e che segna l’inizio di un percorso molto più lungo per smuovere e scardinare le storture che in questo Paese (inteso come aziende, società civile, politica) si presentano costantemente quando si parla di donne e lavoro.
Quante di noi hanno aspettato prima di avere un figlio perché ‘magari potrebbero licenziarmi o, peggio, sostituirmi con qualcun altro’? Quante hanno pensato che proprio quel figlio, che tanto avevano desiderato, in realtà potesse rappresentare un ‘limite’ alla propria carriera? Quante, ancora, hanno sacrificato parte della loro vita privata e familiare per ‘non deludere le aspettative’ di capi e cape che chiedono di essere performanti h24, con il sotto testo costante ‘se non ci sei tu ne troverò altri cento disposti a regalarmi la loro vita pur di conservare un posto di lavoro’? Tante, troppe. Tanti, troppi.
Con questa campagna abbiamo deciso di non restare in silenzio, di prendere posizione contro chi sostiene pubblicamente e implicitamente che sia più importante l’età anagrafica delle competenze, contro un sistema che spinge a scegliere i lavoratori sulla base del genere e non delle capacità, contro un sistema che teme la maternità (e la genitorialità) senza rivendicare invece un fatto in cui noi fortemente crediamo: un figlio aggiunge e non toglie, mai. O almeno non dovrebbe anche se spesso invece accade.
E accade perché viviamo in un Paese che non offre la possibilità di vivere la maternità (la paternità e la genitorialità) in modo sereno, con il sostegno dovuto e voluto. Una società in cui un padre che fa il padre è un ‘mammo’. Una società nella quale un uomo ‘aiuta’ in casa, come se stesse facendo un favore alle donne e non prima di tutto a se stesso. Una società in cui ti permetti di fare un figlio solo se hai i nonni che ti aiutano o i soldi per pagare le babysitter (e i babysitter) perché non esistono gli asili aziendali e le misure di sostegno al reddito per le famiglie in Italia – nonostante alcuni miglioramenti – lasciano ancora a desiderare.
Crediamo fortemente che un figlio oggi – per chi lo vuole e lo cerca – non sia un fatto privato ma una scelta rivoluzionaria perché procreare è diventata una sfida complicata (sia idealmente che biologicamente). Un figlio per noi è una conquista, una conquista che va rivendicata dall’intera comunità.
Il nostro però non è un coro composto solo da madri. È al contrario un grido trasversale che comprende donne con storie diverse e che non si ferma solo al difficile bilanciamento tra lavoro e figli.
Le affermazioni della Franchi fanno male a tutte e a tutti. Anche alle -anta single e senza figli che, secondo l’imprenditrice, sono da assumere solo perché non hanno procreato. Si dà per scontato che, non avendo prole, queste lavoratrici non abbiano altro nella vita per cui uscire dall’ufficio, che non abbiano una vita degna di essere vissuta al di fuori del loro impiego. In più non si considera che oggi il problema è semmai quello opposto: per fare figli si aspettano proprio gli –anta di cui parla la Franchi. Perché negli –enta si sgobba e si fa la gavetta.
Da lavoratrici e da esseri umani, rivendichiamo oggi il diritto al tempo libero. Il diritto di non lavorare e dare la propria disponibilità h24 in nome del presunto successo professionale. Rivendichiamo il diritto di godere del nostro tempo senza essere accusate di poca serietà. Stanche di una narrazione univoca, stanche di sentirci giudicate da un sistema valoriale per cui si è professioniste migliori se si decide di sacrificare tutto in nome della carriera, oggi abbiamo deciso di dirlo con forza: la maternità c’entra poco, il problema è culturale. E anche se vi sentite assolti, siamo tutti lo stesso coinvolti”.