In Parlamento giusto per dare le informazioni. Senza far esprimere deputati e senatori, costretti a fare da spettatori all’intervento di Mario Draghi. Tutto in linea con il trend degli ultimi mesi con un governo che fa quel che vuole, ridimensionando le funzioni delle Camere. In un silenzio quasi tombale. Il 19 maggio, infatti, il presidente del Consiglio si limiterà a fare un aggiornamento sul conflitto in Ucraina rispetto alle scorse settimane.
Il minimo sindacale dopo che la forza di maggioranza relativa, il Movimento 5 Stelle, ha chiesto che Camera e Senato fossero centrali in tema di politica internazionale. Soprattutto mentre c’è una guerra in Europa. E con lo scenario di un ulteriore allargamento. La linea di Palazzo Chigi, però, non si è spostata di un millimetro: nella giornata di ieri è stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il decreto sull’invio di nuove armi all’Ucraina con la secretazione della parte relativa alla tipologia di armamenti.
Nemmeno il tempo di rendere effettivo quel provvedimento, che il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, è pronto ad apporre la firma a un altro decreto ministeriale. Sono così in pochi, nella cerchia del governo, a decidere cosa far arrivare all’esercito ucraino. Giuseppe Conte ha portato avanti la sua idea, riunendo i vertici M5S, per coinvolgere tutti gli attori in campo.
Al centro del confronto c’è stata proprio la questione delle forniture di armi all’Ucraina e l’impegno per un negoziato veloce. Argomenti su cui l’informativa può essere il viatico di un dibattito più ampio, capace di coinvolgere davvero il Parlamento. Al di là di alcune narrazioni, tra i pentastellati c’è una grande compattezza intorno alla linea del presidente.
“Se in passato ci sono state delle diversità di vedute al nostro interno, oggi siamo coesi nel chiedere un processo più trasparente possibile sull’invio delle armi all’Ucraina”, spiegano fonti parlamentari del Movimento a La Notizia. E del resto, ragionano nel campo pentastellato, non si capisce la ritrosia di Draghi a chiedere un nuovo passaggio alle Camere. A meno che non ci siano retro-pensieri. Perché se è convinto di non avere problemi, di muoversi nel rispetto totale del dettato costituzionale, un’ulteriore votazione favorevole sarebbe un segnale di forza.
Una cartolina anche per l’opinione pubblica. Invece si preferisce seguire la strada dei decreti ministeriali. Il contraltare di quei Dpcm che Conte firmava in piena emergenza pandemica, finendo per essere attaccato sull’accentramento dei poteri. Con la differenza che in quel caso si trattava di un fatto nuovo, un virus sconosciuto dagli effetti devastanti, mentre la guerra è – nonostante tutto – un evento altrettanto tragico ma comunque di natura diversa. E che richiede un approccio politico partecipato. Surreale è poi la posizione di alcuni altri partiti, che sostengono una tesi sulla stampa, ma sono poi pienamente allineati a Draghi.
Un esempio? La Lega predica la necessità di perseguire la via diplomatica, ma non chiede che il Parlamento possa esprimersi. “L’invio delle armi non è la scelta giusta”, ha affermato il leader leghista Matteo Salvini, indossando ancora una volta i panni del disarmista a intermittenza. Subito dopo ha infatti spiegato che il suo partito non chiederà alcun voto alla Camera e al Senato.
“Ci sono solo delle comunicazioni”, ha detto l’ex ministro dell’Interno, limitandosi a ricordare l’esistente. Una comfort zone, quindi, in cui si è collocato il Carroccio: tante parole e zero fatti. Basterebbe un passo in avanti per ridare una vera centralità al Parlamento. E alle forze che lo compongono.