L’esasperata ideologia nazionalista putiniana unita a ragioni di carattere economico, vedono avanzare l’armata russa nel Donbass a discapito di una resistenza ucraina che si preannuncia più difficoltosa rispetto ai centri urbani in cui si è giocata finora. Cambiando gli scenari, il Donbass ricorderà – stando alle peculiarità del suo territorio che lo rendono uno campo “aperto” – il teatro del secondo conflitto bellico mondiale in cui l’artiglieria pesante, invocata a gran voce dagli ucraini all’Europa – la farà da padrone.
La “tregua pasquale” auspicata da Papa Francesco sembra sempre più remota e con tutta probabilità Putin, le cui reali mire restano oscure anche al più fine degli analisti, vuole arrivare forte di una vittoria nella contesa regione per la data simbolo del 9 Maggio utile alla narrazione dell’eroismo salvifico delle sue gesta. Gesta che mirano a ridefinire, capovolgendoli interamente, gli equilibri nati dall’ormai lontano 1989 quando il crollo del muro di Berlino ha visto una Russia fragile e depotenziata.
In un simile quadro è completamente estromesso il rispetto per la vita, e la crescita esponenziale del computo dei morti lo certifica quotidianamente. Ma cosa ne è di chi riesce a salvare la propria vita? I corridoi umanitari, per quanto non si siano rivelati completamente sicuri, costituiscono il canale principale attraverso il quale approdare in altri paesi con in cuore la speranza di poter tornare quanto prima nel proprio.
Ma c’è anche chi, vessato e umiliato nelle più intime fibre, finisce nella demoniaca macchina della deportazione, o vi si consegna. Tra questi moltissimi sono minori “salvati” dai russi che – sempre nello storytelling dell’autocrate – denazificando il paese offrono loro un destino migliore nella vera madre patria. Non è un caso che alla Duma circoli la bozza di una proposta di semplificazione della procedura di affido dei bambini ucraini per le famiglie russe. Peccato per le scuole che gli stessi russi hanno bombardato in Ucraina, in nome della cosiddetta “operazione speciale”.
C’è anche chi, però, in una sorta di controesodo, avendo trovato protezione temporanea nei paesi confinanti rientra in quelle zone liberate dagli invasori e nelle quali restano macerie e devastazione. Ma il richiamo della propria terra è forte anche per tutti quei civili che non l’hanno mai lasciata, incapaci anche solo di immaginare il proprio destino altrove.
La rete dell’accoglienza e della solidarietà è un potente motore che non può e non deve arrestarsi, ma l’unico atto umanitario destinato agli ucraini è la liberazione della loro terra alla quale noi europei possiamo concorrere operando lungo le direttive della diplomazia e dell’indipendenza energetica dalla Russia. Strade irte e accidentate che sarebbero, nel migliore dei mondi possibili, alternative alle armi, come sostenuto in molti suoi articoli dal direttore di questo giornale.
Quelle armi che oggi Zelensky invoca e che sono entrate in una sorta di “wish list” a cui invece a mio avviso dovremo rispondere anche noi, violentando la nostra necessità immediata di una pace che non dovrebbe rispondere allo spargimento di sangue con altro sangue. In ogni caso usciremo cambiati da questa guerra anche noi che non la stiamo combattendo direttamente sul campo. Impoveriti economicamente certamente, più saldi nei valori forse. E non tutti.