“Quello che sta accadendo in Ucraina è una tragedia, ma la Russia non aveva scelta”. Per la prima volta dall’invasione dell’Ucraina Vladimir Putin si trova costretto a dismettere i panni del negazionista ad oltranza. Le immagini dei massacri, dei civili morti, dei palazzi distrutti e il numero di famiglie russe che non vedranno i loro giovani figli tornare ormai sono qualcosa di troppo grosso per nasconderlo sotto il tappeto. E quella parola, “tragedia”, citata dall’agenzia di stampa ufficiale russa Tass, è una crepa dopo settimane passate raccontando al popolo russo che in Ucraina “l’operazione speciale” stava proseguendo alla grande.
L’unica breccia nel negazionismo delirante di Putin è l’ammissione che il conflitto in Ucraina è una tragedia
Del resto anche sui media russi, benché strettamente vincolati dal controllo del governo, alcuni analisti cominciano a tirare le somme di un’operazione che avrebbe dovuto essere lampo e che invece rimane incagliata sul campo. Questo dovrebbe bastare almeno per convincere i complottisti di tutto il mondo che in Ucraina stia accadendo un’immane tragedia umanitaria verso cui non possiamo restare indifferenti.
Da parte sua il presidente bielorusso Alexander Lukashenko, da cui Putin era per la sua prima visita ufficiale in un Paese straniere dall’inizio dell’invasione, conferma la vicinanza della sua nazione riconoscendo di vivere “con Putin in un’unica Patria benché in Paesi differenti”. Nella conferenza stampa congiunta con il presidente bielorusso dopo i colloqui durati tre ore presso il cosmodromo Vostochny, nella regione orientale russa dell’Amur, Putin ha sottolineato che Russia e Bielorussia sono strettamente legate economicamente facendo sapere che “le misure occidentali non funzioneranno”.
La parola più usata, com’era prevedibile, è il “neonazismo”, sventolata come fulcro della sua “operazione speciale”: “Lo sviluppo del nazismo è cresciuto in modo acuto e il nostro scontro con le forze del male era quindi inevitabile”, ha spiegato Putin ripetendo il solito copione che dura ormai da 49 giorni. Sfidando la logica il leader russo si spinge addirittura a definire i suoi obbiettivi “assolutamente comprensibili” e “nobili”.
“Lo sviluppo del nazismo – spiega Putin – è cresciuto in modo acuto e il nostro scontro con le forze del male era quindi inevitabile”. Cosa c’entrino le morti civili e le città distrutte col progetto di “denazificazione” non è dato saperlo, figurarsi domandarglielo in una conferenza stampa telecomandata tra le braccia del suo stretto alleato bielorusso. Poi, al solito, torna il Donbass: “Il nostro scopo principale è aiutare le persone nel Donbass, perché le autorità di Kiev, spinte dall’Occidente, si sono rifiutate di rispettare gli accordi di Minsk volti a una soluzione pacifica dei problemi del Donbass”.
L’operazione militare in Ucraina sarebbe, secondo il presidente russo, un modo per garantire la propria sicurezza: “Non avevamo altra scelta, e non c’è dubbio che andremo fino in fondo per raggiungere il nostro nobile obiettivo, che è quello di aiutare le persone nel Donbass”, ha detto Putin. Bugiardo e violento, che ancora ha il coraggio di negare la strage di Bucha definendolo “un falso” (a ieri era di 403 il conto di corpi di civili recuperati) e che si dice pessimista sulla riuscita delle trattative con Zelensky.
Non è un caso che in chiusura del suo discorso Putin abbia citato il successo del programma spaziale sovietico durante gli anni della Guerra fredda, con il volo di Yuri Gagarin e il lancio dello Sputnik 1 nel 1957 per dimostrare come “anche isolata dall’Occidente” la Russia sia “capace di progressi straordinari”. La strada è ancora lunga.