Esattamente 30 anni fa lo storico americano Francis Fukuyama scrisse un saggio politico che voleva essere profetico ma che si è poi rivelato un fallimento previsionale, La fine della storia e l’ultimo uomo. In sostanza le sue tesi affermavano che con l’avvento della postmodernità i conflitti erano obsoleti e superati e mai sarebbe stata concepibile una terza guerra mondiale con gli schemi militari degli anni ‘30/’40. Mai simile previsione è stata più errata e smentita dai fatti: la guerra in Ucraina è l’esempio più clamoroso ma altri mini-conflitti europei come l’annessione della Crimea alla Russia, la vicenda del Donbass, il Kosovo o la Cecenia, dimostrano quanto le tematiche di Fukuyama fossero più che altro un’operazione di legittimo marketing commerciale.
Questo vale per la storia, ma lo stesso si può dire per la televisione e la sua centralità. Quante volte abbiamo sentito affermare in quest’ultimo decennio che, con la comparsa dei social network e delle nuove tecnologie, la tv sarebbe morta? Infinite volte. In Italia poi questa Weltanschauung si è caricata di connotazioni politiche perché inevitabilmente alla televisione veniva associata la figura di Silvio Berlusconi, per cui ripetere che la tv era finita era anche un modo indiretto per attaccare il sistema berlusconiano.
Nel campo della comunicazione l’annuncio della morte di media vecchi a favore di nuovi non è una novità, fu così per la tradizione orale rispetto ai libri, per i libri rispetto ai giornali o per la scomparsa della radio con l’avvento proprio della tv. Un susseguirsi di possibili “defunti” che poi nella massmediologia non si sono mai confermati tali. Perché? Semplice: ci sono media che meglio si declinano in un particolare periodo storico, ma poi situazioni impreviste possono far recuperare la centralità a mezzi ormai considerati desueti. Inoltre, non era previsto che i media potessero fondersi tra loro, internet con la radio, la radio con la televisione e la tv con internet, in una commistione che di fatto salvaguarda, anche nell’era tecnologica, la funzionalità e la peculiarità di ciascun mezzo di comunicazione.
Il Covid e la guerra in Ucraina hanno confermato che la televisione data per morta (così come Silvio Berlusconi…) è ricomparsa in tutta la sua forza e non è un caso che gli indici d’ascolto dei principali network siano saliti esponenzialmente. C’è stata una perfetta penetrazione nella narrazione bellica fra social, tv, radio, giornali e siti d’informazione, ma, almeno nel nostro Paese, è stata ribadita la centralità televisiva. La gente vuole essere rassicurata dal piccolo schermo che è ancora in grado di darci la sensazione di condividere a casa un evento collettivo come non si faceva da tanti anni, forse solo durante il Festival di Sanremo.
Un importante studio di Mediaset ci dimostra proprio questo andamento, come spiega Carlo Gorla (direttore promozione e Sviluppo Programmi Informazione Mediaset): “In quest’inizio di primavera 2022, nel periodo pre-guerra e nel periodo della guerra, è confermata la continua crescita sia dei programmi sia dei tg”. Ma veniamo ai dati. Partendo dai tg, vediamo che tutte le edizioni del Tg5 hanno avuto aumenti di share superiori all’1%, col picco del +1,7% in quella delle 13; Studio Aperto è a +0,2% in entrambe le edizioni, con quella delle 12.30 stabilmente oltre il 10% di share; il Tg4 vede l’aumento più alto alle 19, col +0,7%, sempre sopra il 4% di share.
Il trend interessa anche i programmi d’informazione: Stasera Italia ha una media del 4,6% (+0,5% rispetto al periodo pre-guerra); Quarta Repubblica è al 6,1% di share (+1,2%); Fuori dal coro fa il 5,6% di media (+0,5%); Controcorrente prima serata si attesta sul 4,9% (+1,4%); Dritto e Rovescio arriva al 6,1% di share (+0,2%); Quarto Grado sale del 2,1% ottenendo l’8,1% di share medio; Zona Bianca segna il 4,4% di gradimento (+0,6%). Positivo anche il trend di Diario di guerra, l’approfondimento in onda nel pomeriggio di Rete 4 dal lunedì al sabato, che nelle ultime puntate raggiunge il 4,5% di share con picco l’8 marzo al 4,6%.