Hanno passato anni a ripeterci che lo scostamento anche solo dello 0,1% di deficit pubblico sarebbe stata una sciagura per la stabilità del nostro debito, per la credibilità della nostra economia e per l’equilibrio della nostra democrazia. Tutti, a partire da Draghi nelle vesti di banchiere, hanno insistito nel convincerci che la politica fosse un “far quadrare i conti” in cui qualsiasi slancio sarebbe stato utopistico e spericolato.
Spese militari, l’Europa impone l’austerity anche per respirare. Ma per onorare i patti con la Nato tutto è concesso
Hanno passato anni a descrivere le estenuanti trattative a Bruxelles per ottenere il via libera di qualsiasi spesa infinitesimale e ogni volta veniva raccontata come cortese concessione. Ci siamo sbagliati. Oggi scopriamo che se non rispetti il vincolo di bilancio non è vero che vai in default domani mattina, possiamo tranquillamente alzare in fretta e furia le nostre spese militari al 2% del Pil alla faccia di vincoli che erano più moraleggianti che “basati su dati macroeconomici” come ci raccontavano.
Che a spingere lo sdoganamento creativo sia il banchiere di ferro Mario Draghi rende il tutto ancora più stupefacente. Per giustificare l’aumento delle spese militari in questi giorni si agita lo spauracchio di un accordo preso otto anni fa, come se otto anni non cambiassero le priorità della politica (che altrimenti sarebbe semplicemente il ragioniere dell’economia) e come se in questi otto anni non ci sia di mezzo una pandemia mondiale, un aumento delle povertà e delle disuguaglianze difficilmente prevedibile nelle sue forme, come se non in questi anni non fosse accaduto che perfino i politici più incauti abbiano dovuto fare i conti con un disastro climatico e ambientale in continua accelerazione. Gli accordi si possono modificare e perfino annullare, basterebbe un po’ di cultura politica (ma basta anche un po’ di esperienza aziendale) per saperlo.
Anche perché tra i famosi accordi “che non possiamo permetterci di onorare ce ne sono molti che falliremo di sicuro, che spariscono dal dibattito pubblico e che sembrano interessare poco anche ai media. Per fare solo qualche esempio tra gli impegni non rispettati dall’Italia ci sarebbe il 3% del Pil da destinare alla ricerca che oggi rimane inchiodato all’1,4%. Nel settembre 2015 più di 150 leader internazionali (tra cui l’Italia) si sono incontrati alle Nazioni Unite per fissare obiettivi di sviluppo sostenibile entro il 2030 (la famosa “Agenda 30) tra cui si legge lo 0,7% del Pil da destinare alla cooperazione internazionale (che insieme alle armi dovrebbe essere un tema di modi in questi giorni): sarà praticamente impossibile, come denunciano diverse associazioni tra cui la Caritas e il Forum nazionale del Terzo settore.
Sull’istruzione, tanto per fare un altro esempio lampante, con il suo 4,1% di spesa sul Pil (dato 2018, l’ultimo disponibile) il nostro Paese si attesta all’ultimo posto tra i Paesi europei, nonostante le promesse e gli accordi. Tra gli obiettivi di sviluppo sostenibili stabiliti dall’Onu, in Italia solo quelli riguardanti le coltivazioni biologiche e la riduzione dei tempi della giustizia sono stati raggiunti dalla maggior parte dei territori. Per altri obiettivi come la riduzione dei gas serra, l’efficienza energetica, il consumo di suolo e la protezione delle aree marine c’è ancora molto da fare. Decidere che le spese militari siano un priorità, sia chiaro, è una precisa scelta politica.