Chissà se il bombardamento della propaganda bellica che in queste settimane stiamo subendo ci permetterà di avere gli occhi più aperti su quello che sta accadendo a Julian Assange, sempre più vicino all’estradizione negli Stati Uniti dopo che la Corte Suprema del Regno Unito si è rifiutata di riesaminare il suo caso, circondato dal solito impietoso silenzio di gran parte dei nostri politici abituati a rilasciare dichiarazioni su tutto ma sempre piuttosto distratti sul caso del fondatore di Wikileaks.
Il fondatore di Wikileaks, Julian Assange, è sempre più vicino all’estradizione negli Stati Uniti
Chissà se agli sfegatati difensori dei “valori occidentali” non stona che un uomo che ha contribuito a rendere pubblici disgustosi crimini di guerra degli Usa stia rischiando 175 anni (centosettantacinque anni) di carcere. Stiamo celebrando (giustamente) la giornalista russa Marina Ovsyanniko che ha mostrato in diretta tv un cartello per denunciare le bugie della propaganda e restiamo indifferenti per un uomo che ha mostrato al mondo un elicottero Usa Apache sparare su civili inermi a Baghdad, ha pubblicato centinaia di migliaia di documenti segreti del Pentagono, della Cia e della Nsa, che hanno fatto emergere massacri di civili, torture, scandali e pressioni politiche. Ma è normale?
È normale che gli Stati Uniti accusino Assange con una legge controversa come l’Espionage Act, una legge pensata nel 1917 per punire i traditori che durante la Prima guerra mondiale passavano informazioni al nemico? Parliamo, tra l’altro, della stessa legge che gli Usa hanno usato per punire tra gli altri: Chelsea Manning, la fonte giornalistica che ha passato tutti i documenti pubblicati da WikiLeaks nel 2010; Edward Snowden per la rivelazione dei programmi di sorveglianza di massa della Nsa; John Kiriakou per aver rivelato alla stampa le torture della Cia; Thomas Drake, per aver parlato con giornalisti e membri del Congresso Usa degli abusi della Nsa.
Il processo di Assange dovrebbe interessarci terribilmente perché è un processo che parla anche di noi. Criminalizza la fonte di notizie che sono state pubblicate da decine di giornali e riprese da migliaia di testate nel mondo. Non volevamo essere noi quelli che premiavano “le denunce contro gli abusi del potere” e rivendichiamo una presunta superiorità morale per una sventolata “libertà di stampa”?
Se Assange finisse in carcere negli Stati Uniti si aprirebbe un terribile vulnus nel sistema di protezione della stampa, uno degli indici di una democrazia, e si creerebbe un pericoloso precedente: se il potere ha la possibilità di tacitare una notizia perché considerata “riservata” dal potere stesso allora a che servirebbe la stampa?
E chissà che ne dicono i garantisti, sempre pronti a camminare sul limite dell’impunità, di una vicenda processuale che è tutta politica, dal confino nell’ambasciata del’Ecuador all’inchiesta aperta dalla Svezia fino ai tribunali britannici che prima negano l’estradizione per le condizioni di salute e psichiche di Assange e ora decidono di lavarsene le mani. Occuparsi della libertà dei nemici dei nostri amici è un dovere, anche se costa di più.