Il mondo finisce a Siret. O almeno così sembra guardandosi intorno durante il viaggio – poco meno di un’ora – che dalla città rumena di Suceava, il più vicino aeroporto alla frontiera ucraina, conduce verso il confine. Chilometri e chilometri di terra ghiacciata, campi spogli, case sporadiche, qualche cane randagio che attraversa la strada mentre in auto lascio la città e mi dirigo verso nord.
Il mio viaggio comincia qui, verso quello che rappresenta l’inizio di un mondo nuovo, un mondo senza guerra, senza bombe e senza paura, per migliaia di donne e i loro bambini – ma anche uomini (non me ne vogliano Meloni e Salvini, ma anche loro sono “profughi veri”), quelli che possono, che non sono dovuti restare a combattere per il proprio Paese. Un giorno prima sei uno studente, un lavoratore, un uomo come tanti, quello successivo ti prepari a essere un combattente. Prepari molotov nel buio della tua casa, speri che le bombe e gli spari non raggiungano la tua città. Speri e preghi.
Donne ucraine in fuga in Romania
E poi decidi che sperare e pregare non basta più. Scegli di agire, di muoverti. La frontiera con la Romania era a soli 120 km per Helena, troppo pochi per non pensarci. Mentre guarda suo figlio 15enne giocare a calcio col cugino nel campo che la Fondazione Arca ha costruito a Rădăuţi, mi racconta che da quando sono arrivati lì finalmente hanno ripreso a respirare.
“Da quando la guerra è cominciata ho avuto paura ogni giorno. Oggi è la prima volta che vedo mio figlio sorridere da quando è cominciato tutto e questo vale più di qualsiasi cosa” mi dice. “È stato molto male perché abbiamo dovuto lasciare indietro mio padre. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, pur essendo anziano, ha scelto di restare e combattere per il nostro Paese”.
Ma Helena non è sola. A Siret hanno varcato con lei il confine anche la sorella, i due nipoti e l’anziana madre. Non è stato facile convincerle, mi spiega. Nessuna di loro avrebbe mai pensato di lasciare l’Ucraina, di vivere altrove. “Mi piaceva alzarmi presto, alle 5 del mattino, e fare yoga” – continua Helena “ero vegetariana, vivevo una vita normale. Mai avrei pensato di trovarmi in questa situazione”.
Non lo pensava la sorella neanche quando i russi hanno cominciato a bombardare la sua città, Odessa. “Più che vedere la guerra l’ho sentita”, mi racconta. “Sentivo le sirene del coprifuoco, da una certa ora in poi era proibito uscire o rischiavi di farti sparare, di essere considerato un nemico. Un amico di famiglia è stato ferito al petto e al braccio mentre era sulla porta di casa. È rimasto per 24 ore senza assistenza medica, è stato impossibile portarlo all’ospedale per via delle bombe”.
Oggi, a distanza di giorni, riconosce di aver vissuto dei veri e propri attacchi di panico. “Quando partiva la sirena mi sedevo per terra e pregavo finché non smetteva. Ogni volta che mio marito usciva di casa per andare a comprare da mangiare pregavo sempre che tornasse vivo. So che ora è persino peggio di quando ero lì, sono contenta di essere fuggita. Me ne sono andata il 2 marzo, era solo l’inizio dell’inferno. Il giorno in cui siamo partiti, il coprifuoco è ormai stato esteso all’intera giornata. Abbiamo dovuto sfidarlo, uscire nonostante il divieto, per andarcene via”.
Ma restare era diventato impossibile, spiega Helena. “Siamo qui per i bambini. Era divenuto impensabile garantire loro educazione, sicurezza, vita. Avevamo paura di partire ma ancora più paura di restare”.
Ora “non riusciamo a dormire, non dormo da tre giorni” continua. “Ho tutti questi problemi che mi affollano la mente… Resto a letto ma non riesco a chiudere gli occhi. Ho paura, mi chiedo come raggiungere il padre di mio figlio, che vive in Spagna. È lì che andremo, non appena arriverà il pullman”.
Il campo profughi di Siret
Arrivo alla frontiera che è ormai buio, la neve scende a intermittenza sugli agenti di tre check point che precedono il campo e sui centinaia di profughi che a piedi o in auto attraversano il confine. C’è chi aspetta anche per giorni al gelo, chi non si arrende e alla fine ce la fa. Me lo racconta Giuseppe, un interprete romeno: “Ricordo un uomo di quasi 70 anni. Ha aspettato 4 giorni e 4 notti al di là della frontiera. Quando è arrivato da questa parte piangeva come un bambino”.
Al di qua c’è l’Europa, ma ancor prima, nella pratica quotidiana che diventa tangibile salvezza, ci sono i volontari che accolgono i profughi, danno loro assistenza sanitaria e legale, un pasto caldo e un modo per andarsene da qui, un biglietto gratuito sui pullman che partono verso Occidente, per raggiungere le famiglie o semplicemente la libertà.
E, nel frattempo, un riparo nelle tende al caldo, dove farsi coraggio tutti insieme. In quella dedicata alle donne e ai bambini, un momento di tenera e ossimorica normalità mentre madri e figli si stringono nel freddo della notte e insieme guardano un cartone animato.
Si respira un senso di immensa solidarietà a Siret, un aiuto che supera qualsiasi barriera linguistica, qualsiasi nazionalità. È una guerra insensata, quella che si combatte in Ucraina, mi ripetono in tanti. Una guerra, si legge nei loro occhi, che potrebbe colpire chiunque e che a oggi ha provocato un esodo di oltre un milione e mezzo di persone dal loro Paese.