Ormai pare quasi una certezza: se non si dovesse trovare un accordo su un altro nome, la carta da giocare dei partiti è quella di Mario Draghi. E, almeno a sentire le voci che si rincorrono nei palazzi del potere, il presidente del Consiglio ci spererebbe tanto (leggi l’articolo). Ed è anche comprensibile dopotutto: dopo aver ricoperto incarichi decisamente prestigiosi, dopo aver provato anche l’ebbrezza della presidenza del Consiglio – salvo poi dover avere a che fare con i partiti e con i loro leader – è più che legittimo che Draghi aspiri alla presidenza della Repubblica.
Un incarico prestigioso e, soprattutto, rappresentativo. Dunque lontano dalle beghe partitiche che – non è un mistero – non hanno mai troppo interessato l’ex governatore della Bce. Sarebbe dunque tutto molto logico se non fosse per un “ma”. Non si può dimenticare, infatti, che Draghi venne chiamato a sostituire Giuseppe Conte per via della crisi (mai compresa fino in fondo) fatta scoppiare da Italia viva e da Matteo Renzi.
Nell’ordine si parlò prima dell’assoluta necessità che l’Italia attivasse il Mes. Poi, però, di quell’argomento nessuno ha più parlato con Draghi tanto che – mistero dei misteri – il Mes di fatto non è mai stato attivato. Rimarrà storica la dichiarazione in Aula fatta dal capogruppo di Iv al Senato, Davide Faraone, rivolto a Draghi per giustificare l’ingiustificabile: “È lei il nostro Mes, presidente”.
IL MANDATO. Da allora acqua sotto i ponti ne è passata. Abbiamo visto maggioranze illogiche trovare una quadra proprio intorno al nome di Draghi. In questo fluire liquido della crisi assoluta dei partiti, sono rimaste però alcune certezze. Come gli obiettivi che ruotavano attorno al mandato di Draghi: da una parte la necessità che ci fosse un uomo esperto come Draghi per riuscire a costruire un piano saldo per utilizzare i fondi del Recovery Fund; dall’altra l’urgenza assoluta di uscire dalla crisi pandemica e portare dunque a compimento la campagna vaccinale.
Su entrambi i fronti, infatti, diversi partiti hanno ritenuto Conte assolutamente incapace. Peccato però che ad oggi nulla sia stato portato a termine. La campagna vaccinale, tanto per dirne una, è ancora in corso e, anzi, la situazione appare molto più critica di quando lo era negli ultimi mesi di governo Conte. E sul Recovery Fund? A parte la trasparenza ridotta ai minimi termini, le scadenze rischiano di saltare anche con Super Mario.
Un esempio? “Abbiamo raggiunto tutti e 51 gli obiettivi” del Piano di ripresa e resilienza per il 2021, diceva Draghi Draghi il 22 dicembre, durante la conferenza stampa di fine anno. Peccato però non sia completamente vero. Solo nei primi sei mesi quindici traguardi legati ad altrettante riforme, da quella della pubblica amministrazione al fisco passando per la riorganizzazione dell’assistenza sanitaria territoriale e la nuova spending review. Tra luglio e dicembre altri ventidue: dalla riforma delle commissioni tributarie all’entrata in vigore dei decreti legislativi su quelle del processo civile e penale fino al piano per la lotta al lavoro sommerso.
Sono alcuni dei 100 obiettivi che l’Italia deve centrare nel 2022 per ottenere la seconda e terza rata di prestiti e finanziamenti a fondo perduto per un totale di 45,9 miliardi lordi (40 al netto del prefinanziamento): l’esborso più “pesante” tra quelli previsti nell’intero arco del piano Next Generation Eu, che porta con sé un numero di condizioni doppio rispetto a quelle concordate per il 2021, anno in cui diversi traguardi già sono sfuggiti all’Italia.