Si fa presto a parlare di transizione ecologica, green economy ed energia rinnovabile. Eppure al di là di parole e promesse, la realtà è che l’Italia – come ogni altro Stato – difende con le unghie e con i denti le operazioni legate alla difesa delle fonti fossili. A metterlo nero su bianco è un rapporto di Greenpaece secondo cui malgrado gli accordi sul clima, l’Unione europea, la Nato e i tre Paesi oggetto dell’indagine, ossia l’Italia, la Spagna e la Germania, continuano imperterriti a spendere miliardi di euro per inviare militari a protezione delle attività di ricerca, estrazione e importazione di gas e petrolio.
Così si scopre che nel 2021, Roma ha investito ben 800 milioni di euro e che dal 2018 a oggi la spesa complessiva per le missioni militari destinate a operazioni legate alla difesa di fonti fossili ha raggiunto l’impressionante cifra di 2,4 miliardi di euro. Sempre secondo il report per missioni analogie, a Madrid la spesa nel 2021 è stata di 274 milioni, ossia il 26% del proprio budget per le operazioni militari, mentre la Germania si ferma ad appena 161 milioni di euro, pari al 20%. Ingenti risorse per le quali Greenpeace non può che costatare quello che definisce “un paradosso” perché piuttosto che “sprecare risorse per difendere gli interessi dell’industria del gas e del petrolio, si dovrebbero proteggere le persone dagli impatti della crisi climatica alimentata proprio dallo sfruttamento delle fonti fossili”. Per questo chiede a Mario Draghi di investire denaro “in fonti rinnovabili e non facendo gli interessi delle compagnie dei combustibili fossili con missioni militari all’estero”.
LEGGERE TRA LE RIGHE. Per capire in che modo questo fiume di denaro viene utilizzato, spesso è necessario leggere tra le righe di atti, documenti e dichiarazioni di ufficiali. Del resto che tali operazioni servano a preservare gli interessi nazionali relativi ai combustibili fossili, è pressoché impossibile che venga detto apertamente. Che le cose stiano così lo si capisce guardando all’operazione Gabinia nel Golfo di Guinea e all’operazione Mare Sicuro al largo della costa libica. Entrambe hanno come primo compito la “sorveglianza e protezione delle piattaforme di Eni” che si trovano nelle acque internazionali come si legge chiaro e tondo dalla Relazione analitica sulle missioni internazionali in corso, trasmessa al Parlamento il 30 giugno 2021.
Intendiamoci, nessuna missione ha l’esclusivo scopo di proteggere l’Eni. Ogni missione ha una moltitudine di obiettivi. Ma, fa notare Greenpeace, è che in questo elenco la tutela delle piattaforme e dei combustibili fossili è quasi sempre al primo posto. “Lo stretto legame tra il dispiegamento militare e gli interessi dell’azienda è evidente nel caso di Mare Sicuro. Anche se il nome potrebbe evocare il salvataggio dei migranti, il primo compito ufficiale è quello di assicurare con continuità la sorveglianza e la protezione militare alle piattaforme dislocate nelle acque internazionali antistanti le coste libiche e la protezione al traffico mercantile nazionale operante in area” si legge nel report.
Che le cose stiano così lo ha ammesso perfino il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini (nella foto), che in Parlamento parlando di Mare sicuro ha detto che è una missione “a protezione degli interessi nazionali nell’area” ossia “impianti petroliferi, traffico mercantile, attività di pesca”. Ma questa non è che una missione tra le tante con Greenpeace che punta il dito soprattutto su quelle che riguardano l’Iraq, il Golfo di Aden e il Mediterraneo orientale, dove il legame di con Eni e gli interessi energetici italiani è ritenuto evidente.