Sono giorni di dibattito intenso sulla petizione per l’abolizione delle prove scritte agli esami di Stato. Le nostre ragazze e i nostri ragazzi l’hanno sottoscritta ben 42mila volte: un “successo” che ha inevitabilmente richiamato l’attenzione generale. C’è un tratto interessante nella sproporzione tra la naturalezza con la quale viene portata avanti la richiesta e la reazione del mondo adulto.
Laddove i maturandi scrivono o dichiarano che gli esami scritti sono “pleonastici”, che le prove sottopongono a uno “stress” infruttuoso, che l’esame col tema di italiano “era vecchio già prima della pandemia, ora è anni luce distante dalla realtà degli studenti” (presidente della Rete degli studenti medi); gli altri – gli intellettuali, i pedagogisti, i giornalisti, i docenti – rispondono che apprendere certe posizioni è “doloroso”, che “il quadro dell’istruzione in Italia è grave”, che “la scrittura s’è ridotta alla povertà dell’invettiva o dell’esagerata meraviglia”, che “grazie ai social, nessuna persona sana di mente riesce ancora a leggere più di mezza riga di uno scritto qualsiasi senza venire colta dal mal di testa”.
Dopo anni e anni di emoticon, frasi abbreviate, sorrisi, cuoricini, sigle, viene allo scoperto una crepa che è molto più di una frattura generazionale. Da decenni l’uso delle parole si sta consumando come una candela. Prima sono scomparsi i grandi romanzi e le grandi narrazioni. Poi la penna e la bella scrittura. Poi le lettere. Adesso il tema d’italiano. Stupirsi dunque di fronte a una gioventù spaventata da una pagina bianca è anche un po’ ingenuo. Perché mai – nell’epoca del permanente dileggio sul web e dei commenti su tutto – i nostri studenti dovrebbero trovarsi a loro agio nella complessità dell’argomentare?
È evidente che questo sia l’ultimo passo di un lungo cammino. Per pigrizia ci siamo raccontati che fosse “evoluzione”, ma sappiamo almeno da duemila anni che così non è. “Gli uomini si distinguono dagli animali perché guardano il cielo”: i primi hanno la testa rivolta verso l’alto, le bestie indirizzano gli occhi a terra, scriveva Ovidio. E oggi che la testa dell’umanità è sempre più china verso gli smartphone e il pavimento, viene il dubbio che il libro delle Metamorfosi stia raccontando l’atto finale.
Mi sembra che questa sia una questione enorme e che la scuola – per il bene di tutti – debba ormai affrontarla in modo deciso. I due anni di pandemia hanno influito sulla decisione straordinaria di basare sul colloquio la valutazione complessiva dell’esame di stato.
Ma quello è già il passato. L’attuale ritorno alla scuola in presenza, comporta di per sé un’assunzione di responsabilità del tutto nuova. C’è una più complessiva emergenza educativa rispetto alla quale l’esercizio della scrittura è solo un aspetto.
Sapere usare le parole significa saper esprimere le proprie emozioni e sentire tutto il sapore della vita. È solo cercando le parole che nel tempo abbiamo trovato i pensieri. A diciotto anni, la “maturità” non può che passare da lì. Per riscoprire il cielo, per uscire, di nuovo, “a riveder le stelle”.
L’autrice è Presidente della Commissione Cultura Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati