Nessuno stop al procedimento sul crollo del Ponte Morandi (leggi l’articolo). La Corte d’Appello di Genova ha rigettato le dichiarazioni di ricusazione nei confronti del giudice per l’udienza preliminare Paola Faggioni, presentate dall’ex amministratore delegato di Aspi, Giovanni Castellucci (nella foto), e da altri imputati. Il gup potrà così decidere, a partire dal prossimo 8 novembre, se rinviare a giudizio l’ex manager e altri 58 imputati.
LA DECISIONE. Il giudice Faggioni nel 2020 firmò, in veste di gip, le misure cautelari per Castellucci e altri indagati nell’ambito del filone d’inchiesta sulle barriere autostradali fonoassorbenti ritenute a rischio crollo. Per i difensori dell’ex manager e altri imputati, in quell’occasione il magistrato avrebbe quindi espresso anche valutazioni sulle indagini in corso legate all’inchiesta principale sul crollo del ponte, avvenuto il 14 agosto 2018 e costato la vita a 43 persone, ma la Corte d’Appello è stata di diverso avviso.
“Si tratta di procedimenti distinti per fatti diversi – hanno specificato i magistrati – e va escluso che il giudice nell’ambito dell’ordinanza per le misure cautelari avesse espresso una valutazione sulla colpevolezza o innocenza degli attuali imputati in relazione ai fatti che costituiscono l’oggetto del presente procedimento. Non risulta perciò formulata valutazione alcuna sulla responsabilità dei ricorrenti in relazione agli specifici fatti che costituiscono l’oggetto del processo in corso”. Ancora: “Non appare ravvisabile nel caso alcuna compromissione dell’imparzialità del giudice”. E l’udienza preliminare può riprendere.
IL CASO. Il gup Faggioni dovrà dunque pronunciarsi su 59 imputati, tra cui, l’ex numero due di Aspi, Paolo Berti, e l’ex direttore delle manutenzioni, Michele Donferri Mitelli. Sono oltre 300 le parti civili e circa 100 gli avvocati. Le accuse, a vario titolo, vanno dall’omicidio colposo plurimo all’attentato alla sicurezza dei trasporti, fino al crollo doloso, al falso e all’omicidio stradale.
Per i pm Massimo Terrile e Walter Cotugno, coordinati nell’inchiesta dal procuratore aggiunto Paolo D’Ovidio, “i problemi cui il processo deve dare risposta sono, semplificando al massimo, soltanto due: un buon gestore/manutentore avrebbe potuto/dovuto accorgersi delle condizioni in cui versavano i cavi ed intervenire tempestivamente per interrompere il traffico e porvi rimedio, oppure il disastro era inevitabile? Se il disastro non era inevitabile, chi non ha fatto quanto avrebbe avuto l’obbligo di fare in relazione al suo ruolo e alla sua area di competenza?”.
E secondo i pubblici ministeri “era possibile, e quindi doveroso, evitare il disastro”. Già nel 1990 e nel 1991 del resto, secondo gli inquirenti, Autostrade Spa sapeva che nella pila 9 del Ponte Morandi, quella crollata, vi erano “due trefoli lenti e due cavi scoperti su quattro”. Nel mirino infine il calo del 98,05% della spesa nelle manutenzioni con la concessionaria privata.