Dopo quasi vent’anni di indagini e processi, giunge all’epilogo la vicenda sulla presunta trattativa tra Stato e Cosa Nostra per porre fine alle stragi di mafia. Si tratta di una delle pagine più nere della storia d’Italia con la potente organizzazione criminale che, ad inizio anni ‘90, alza il tiro portando il livello dello scontro con le istituzioni ad un livello mai visto in precedenza. A decretare il cambio di paradigma è l’allora boss Totò Riina deciso a mettere in moto una rappresaglia per vendicare l’onta subita dall’organizzazione durante il Maxiprocesso, in cui nel primo grado figuravano ben 475 imputati a cui sono stati inflitti nel 1986 ben 2665 anni di reclusione complessivi, e che il 30 gennaio 1992 quando la Cassazione emise il verdetto definitivo.
LA SFIDA DI RIINA. Con la sentenza ormai passata in giudicato, la mafia siciliana non resta con le mani in mano e mette in moto gli ordini del suo indiscusso leader. Il passaggio dalle parole ai fatti avviene il 12 marzo del 1992 quando viene barbaramente assassinato l’eurodeputato della Dc, Salvo Lima. L’agguato avviene dopo che il politico esce dalla sua villa a Mondello per recarsi all’hotel Palace dove di lì a poco doveva svolgersi un convegno in cui era atteso anche Giulio Andreotti. Un incontro a cui Lima non prende parte perché la sua auto, su cui viaggiavano anche altre persone, viene affiancata da un commando in motocicletta con alla testa due sicari che prima sparano verso la vettura intimando l’alt e dopo, letteralmente ignorando gli altri occupanti del mezzo, finiscono l’eurodeputato che tentava una disperata fuga.
La scelta di colpire Lima non sarebbe avvenuta per caso. Il politico, come emerso anche in diversi processi, sarebbe stato contiguo ai clan e si sarebbe attivato, senza ottenere alcun successo, nel maxiprocesso di Palermo per cercare di alleggerire le accuse in Cassazione. Proprio questo fallimento convinse i boss che Lima non era più in grado di garantire i rapporti tra Cosa Nostra e le istituzioni, per questo ordinarono la sua esecuzione. Al contempo è anche un segnale indirizzato ad Andreotti che, proprio in quel giorno, iniziava la campagna elettorale per le imminenti elezioni politiche.
“Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola”, scriveva Giovanni Falcone su La Stampa, poche settimane prima di saltare in aria nella strage di Capaci. Ma la sfida allo Stato è solo all’inizio. Passano pochi mesi e arrivano le sanguinose stragi di Capaci del 23 maggio 1992 e di via D’Amelio del 19 luglio 1992 in cui persero la vita i magistrati antimafia Falcone e Paolo Borsellino, ossia proprio coloro che istituirono il maxiprocesso. Poi la scia di sangue prosegue con gli attentati del ‘93 a Milano, Firenze e Roma.
FALLE NELL’INDAGINE. Proprio il biennio ‘92-93 è quello che convince parti delle istituzioni ad aprire un canale con i boss. Stando alle tesi dell’accusa è l’allora ministro Calogero Mannino, spaventato dalle minacce di Cosa Nostra, che attiva i vertici del Ros, Antonio Subranni e Mario Mori, affinché entrino in contatto con i clan. Sarebbe stato in particolare il generale Mori ad avvicinare l’ex sindaco di Palermo condannato per mafia, Vito Ciancimino. È questo il momento in cui si sarebbe dipanata la cosiddetta “trattativa” che, tra le altre cose, ha fatto finire sotto processo lo stesso Mannino che, a differenza degli altri imputati, ha scelto il rito abbreviato.
Un processo, quello a carico del ministro (leggi l’articolo), che si conclude nel 2020 con l’assoluzione in via definitiva in quanto, secondo i giudici, non ha dato il via ad alcuna interlocuzione coi boss, anzi ha sempre portato avanti un’azione di contrasto alla mafia. Proprio questo verdetto, ha dato un colpo devastante per l’accusa, finendo per travolgere anche il troncone principale che si è concluso ieri con le assoluzioni di Dell’Utri e i carabinieri del Ros (leggi articolo).
Cuore della trattativa, a prescindere da come sia iniziata, sarebbe stato il cosiddetto “papello”, ossia un documento contenente le richieste di Riina alle istituzioni in cambio del quale avrebbe offerto una pax mafiosa interrompendo la scia di sangue come poi effettivamente avvenuto. Peccato che quel pezzo di carta, raccontato anche da alcuni pentiti, non è mai stato trovato e così da possibile prova per il processo si è trasformato in un altro dei nodi problematici della ricostruzione della Procura di Palermo.