Che una “rivisitazione” del Patto di stabilità e crescita – con i parametri di Maastricht abbattuti nel 2020 a causa della pandemia – sia nei desidera rata del Commissario Ue all’economia Paolo Gentiloni e sostenuta dai paesi ad alto debito (leggi Italia, Francia, Spagna, Grecia) non è un segreto.
L’ex premier italiano lo ha detto esplicitamente la settimana scorsa a Cernobbio nel corso del Forum Ambrosetti: pur non parlando esplicitamente di riforma (cambiare il tetto del 60%, vale a dire la regola del debito, che prescrive che un Paese che ha un debito pubblico superiore al 60% del Pil deve ridurlo ogni anno di un ventesimo della quota eccedente il 60% implicherebbe un cambiamento dei Trattati) ha comunque affermato che occorre aggiornare le regole fiscali anche a livello comunitario e “modificare il percorso di rientro del debito dei singoli Stati membri”.
Mario Draghi è convinto che sia possibile. “Il Patto – ha assicurato il premier prima dell’ultimo Consiglio Ue di giugno – non si ripresenterà nella stessa forma di prima”, ben conscio che per Paese come l’Italia, che dopo la batosta della Covid ha un debito al 160% del Pil, sarebbe insostenibile. Addio ripresa. Ma c’è chi prova a far tornare i parametri pre pandemici già nel 2023 (quando verrà disattivata la clausola di salvaguardia): ovviamente si tratta dei “rigoristi” o “frugali” che si voglia, che già lo scorso anno si sono resi protagonisti di vari muro contro muro nei Consigli europei in cerca dell’accordo sul bilancio comunitario e sul Recovery fund per fronteggiare la crisi pandemica.
Insomma la storia si ripete: oggi e domani, alle riunioni dei ministri finanziari dell’Ue in formato Eurogruppo e poi Ecofin in Slovenia, (presidente di turno dell’Unione) l’Austria di Sebastian Kurz (nella foto), l’Oanda di Mark Rutte a cui si sono accodati Finlandia, Slovacchia, Svezia, Danimarca, Repubblica Ceca, Lettonia, presenteranno un loro documento contro qualsiasi tentativo di riforma del Patto di stabilità.
“Ridurre il debito deve rimanere un obiettivo comune – si sottolinea nel testo redatto dagli otto – il Trattato obbliga tutti gli Stati membri a evitare e correggere i deficit eccessivi”. Detto questo, “siamo aperti a migliorare la governance economica e fiscale”, ma solo con “le semplificazioni e gli adattamenti che favoriscono un’applicazione consistente, trasparente e migliore e un rafforzamento delle regole”.
Nessuno, comunque, ipotizza che una soluzione possa essere trovata prima che in Germania si insedi il nuovo governo, dopo le elezioni politiche del 26 settembre: il risultato del voto non sarà irrilevante per l’esito del confronto e un ruolo lo avrà anche la scelta del nuovo ministro delle Finanze. Non è un dettaglio: se nelle trattative su Next Generation Eu al posto di Scholz ci fosse stato ancora il “falco” Schaeuble la strada che ha portato all’accordo sarebbe stata sicuramente più impervia.
Di positivo c’è poi che anche per la Francia le regole di bilancio del Patto di stabilità – scritte nel 2012, in un altro mondo – sarebbero ad oggi inapplicabili e si cercherà di cambiarle. Ma trovare un’intesa non sarà comunque un’impresa facile e i tempi non saranno brevi. Tra qualche settimana anche la Commissione Ue inizierà a muoversi con delle prime bozze di proposta, ma le carte non usciranno fuori prima dell’inizio del 2022.