Brucia, eccome se brucia. C’è poco da minimizzare: le dimissione (indotte più che spontanee) del sottosegretario leghista Claudio Durigon (leggi l’articolo) rappresentano per Matteo Salvini una bella batosta, Sia per l’immagine – nel giro di neanche due anni ha dovuto chiedere un passo indietro a tre suoi esponenti di governo – Siri, Rixi e ora un l’uomo forte del Lazio, praticamente colui che ha tirato gli ha tirato su il partito dal nulla – sia perché si tratta in tutti e tre i casi di fedelissimi, sue creature lontane dalla Lega a matrice nordista e moderata (leggi Giorgetti e i governatori Zaia e Fedriga).
Non a caso Matteo ha cercato sin da subito di spostare l’attenzione sull’operato della ministra dell’Interno (“Contiamo che questa scelta induca a seria riflessione altri politici che non si stanno dimostrando all’altezza del loro ruolo”).
Riferimento lapalissiano alla Lamorgese, sotto attacco costante e quotidiano ormai. Strategia che, nelle intenzioni di Salvini, sarebbe utile – ben conscio di non poter sperare nelle dimissioni – al fine di ottenere da un lato deleghe “pesanti” (in materia di immigrazione in primis) per il suo sottosegretario Molteni e per fare pressioni affinché la scelta di Draghi, a cui spetta il compito di proporre al capo dello Stato un nuovo nome per la poltrona lasciata vacante, ricada ancora su un esponente del Carroccio.
Sebbene non vi sia nessun obbligo formale in tal senso, dalle parti di Via Bellerio si considera come un atto dovuto. “Mi sembra normale che debba andare alla Lega”, ha affermato ieri il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari.