di Stefano Sansonetti
Dovrà gestire miliardi di euro di immobili pubblici. Eppure all’interno di tutto questo bendidio non ha saputo trovare un ufficio in cui sistemarsi a costo zero per le casse dello Stato. Al centro di questa sorta di “colmo dei colmi” c’è Invimit, ovvero la società del Tesoro che dovrebbe provvedere alla valorizzazione ed eventuale cessione del patrimonio immobiliare della pubblica amministrazione. Una potenziale partita da 370 miliardi di euro, una cui piccola parte dovrebbe negli anni aiutare lo Stato a fare cassa, almeno secondo i piani rilanciati qualche giorno fa dal presidente del consiglio Enrico Letta. Peccato che Invimit, a suo modo, ancor prima di andare a regime abbia fatto un piccolo capolavoro. Si dà infatti il caso che per svolgere le sue attività la società abbia preso in affitto la bellezza di 650 metri quadri in uno stabile in pieno centro a Roma, a un tiro di schioppo da palazzo Chigi, Montecitorio e fontana di Trevi. A fornire l’immobile è Inarcassa, l’ente privato di previdenza di ingegneri e architetti. Da qui la domanda che, nemmeno troppo maliziosamente, qualcuno si è posto nei giorni scorsi: possibile che la società pubblica che dovrà gestire e valorizzare centinaia di immobili di Stato non ne abbia trovato nemmeno uno in cui sistemarsi senza pagare-sprecare soldi per l’affitto da corrispondere a un privato? Anche perché, a quanto risulta, il canone versato da Invimit a Inarcassa si aggira intorno ai 20-30 mila euro al mese. Non proprio un buon biglietto da visita in un periodo di vacche magre che dovrebbero imporre attenzione nella gestione del denaro pubblico. La questione ieri è stata sottoposta da La Notizia al ministero del Tesoro, senza però ricevere una risposta.
La società
Nello stabile vicino a piazza Colonna, proprio in questi giorni, fervono i preparativi. E’ proprio qui, infatti, che sarà fissato il quartier generale di Invimit, guidata dal presidente Vincenzo Fortunato, pluripoltronato ex capo di gabinetto del Tesoro (è anche collaudatore del Mose di Venezia, liquidatore della Stretto di Messina, docente alla Scuola superiore dell’economia e delle finanze e presidente del collegio sindacale di Studiare Sviluppo), e dall’amministratore delegato Elisabetta Spitz, ex capo dell’Agenzia del Demanio, di professione architetto. L’attuazione della normativa relativa alla società del Tesoro risale alla fine del governo Monti, quando l’allora ministro dell’economia Vittorio Grilli firmò il via libera definitivo. Ma l’impianto di Invimit è stato confermato dall’attuale ministro Fabrizio Saccomanni. In pratica, secondo i piani in cantiere, la società (tecnicamente una sgr, ovvero società di gestione del risparmio) dovrebbe funzionare come fondo di fondi e aggregare anche soggetti privati che operano nel settore dello sviluppo immobiliare. In teoria è anche già stata individuata una lista di 350 immobili, del valore di circa 1,5 miliardi di euro, che l’Agenzia del demanio dovrebbe trasferire a Invimit. Il tutto, però, non a titolo gratuito.
Tempi stretti
I vertici della società, ad ogni modo, stanno cercando di accelerare i tempi. La Spitz, che peraltro risulta anche amministratore di una società privata che opera nell’immobiliare e che si chiama Re Asset Management, ha fretta. E non vuole farsi bruciare da quella che potrebbe essere la concorrente più agguerrita nella gestione della partita del mattone di stato: la Cassa depositi e prestiti. La società guidata dal presidente Franco Bassanini e dall’amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini, infatti, ha già una sua sgr ad hoc, munita di tutte le autorizzazioni del caso. Invimit, invece, è ancora in attesa del via libera che deve arrivare da Bankitalia. Un passaggio che non sta facendo dormire sonni tranquilli a Fortunato e Spitz. Addirittura dagli ambienti dell’Agenzia del demanio filtra che alla fine l’operazione di trasferimento dei primi 350 immobili potrebbe essere effettuata con Cdp, al momento più attrezzata. Sulle sorti di Invimit, infine, pendono anche le perplessità di Saccomanni, che l’ha ereditata e non sembra essere troppo convinto delle potenzialità del veicolo.
Svendite di stato, ci risiamo. Tra partecipazioni e immobili si prepara l’ennesimo Regalo per stranieri e amici
I numeri teoricamente in gioco sono particolarmente consistenti. Ma all’interno del patrimonio dello stato i “gioielli” veramente appetibili sono pochi. E viste le attuali condizioni di mercato si rischia letteralmente di svenderli. Il presidente del consiglio, Enrico Letta, l’altro giorno da Cernobbio ha rotto gli indugi annunciando un piano per cercare di fare un po’ di cassa cedendo qualche asset. Naturalmente nel mirino ci sono le quote detenute dal Tesoro in società di piazza Affari come Eni, Enel e Finmeccanica. Ma anche non quotate come Poste potrebbero essere oggetto di attenzione. Per non parlare degli immobili pubblici ancora in pancia agli enti locali e agli enti previdenziali, in quest’ultimo caso dopo le fallimentari esperienze delle cartolarizzazioni (le famigerate Scip). Ma quali sono le reali cifre in gioco?
La radiografia
Diciamo che tra le più recenti stime del patrimonio pubblico quella più citata risale al settembre del 2011 e porta la firma dell’economista Edoardo Reviglio. Secondo i suoi calcoli a quella data il patrimonio complessivo dello stato ammontava a 1.815 miliardi di euro. All’epoca si trattava di una cifra quasi identica al debito pubblico, nel frattempo però lievitato fino a sfondare il tetto dei 2 mila miliardi. Ora, dei 1.815 miliardi di asset pubblici, 368 erano di immobili della pubblica amministrazione, di cui 72 in carico allo stato centrale, 11 alle regioni, 29 alle province e 227 ai comuni. Insomma, la gran parte del mattone di Stato era (ed è tutt’ora) in pancia agli enti locali. Dopodiché Reviglio aveva calcolato in 132 miliardi il valore delle partecipazioni in società pubbliche, di cui 44,8 in veicoli riconducibili allo Stato centrale. Tra immobili e partecipazioni azionarie, allora, ci sarebbero in gioco 500 miliardi di euro. Ma è una cifra quasi “virtuale”, visto che la maggior parte di essa fa parte di asset di competenza degli enti locali. Lo Stato centrale, di suo, può vantare cespiti che non arrivano a 120 miliardi. Il problema è che cercare di fare cassa, anche solo su questi, non è certo operazione semplice, soprattutto in un periodo di crisi economica che rischia di trasformare in un’autentica svendita ogni operazione in cantiere.
I problemi
“Finché il debito pubblico non diminuisce e non si consegue un effettivo pareggio di bilancio ogni operazione di cessione del patrimonio è perfettamente inutile e dannosa”, dice Antonio Maria Rinaldi, professore di finanza aziendale all’università D’Annunzio di Pescara. Rinaldi si definisce “un pentito delle privatizzazioni” e ne spiega i motivi. Il ragionamento è che “noi abbiamo un debito pubblico che ha un ritmo crescente, come dimostrano tutte le statistiche ufficiali”. Il fatto è che “a questi prezzi di mercato è assolutamente impossibile ricavare anche 20 o 30 miliardi di euro”. Insomma, è inutile raggranellare al massimo 10 miliardi che certo non contribuirebbero ad ammorbidire una montagna di debito nel frattempo sempre più alta”. Dopodiché non si possono nemmeno trascurare i rischi a cui si andrebbe incontro provando a mettere sul mercato quote come quelle che lo Stato ha in Enel o Eni. “In questi caso lo Stato è sul filo del mantenimento della maggioranza, senza nemmeno poter disporre di un’incisiva golden share per difendersi”, precisa Rinaldi, che naturalmente fa riferimento a quelle poche società strategiche che sono rimaste in pancia al Paese. Detto questo, si chiede l’economista, “che senso ha organizzare un piano per vendere qualche caserma in giro per l’Italia riuscendo a malapena a ricavare 1 miliardo di euro? Forse per fare regali a qualche amico degli amici”. E proprio questo, in effetti, con la svendita è uno dei principali rischi di fronte ai quali andrebbe a trovarsi un piano di dismissioni. Il tutto sulla base di esperienze passate che hanno arricchito grandi gruppi e grandi imprenditori e che certo non fanno sperare in esiti diversi.
Il piano di Letta
Di sicuro il presidente del consiglio qualcosa dovrà fare nei prossimi mesi. Il progetto in cantiere si chiama “Destinazione Italia” e dovrebbe trovare concretizzazione a breve. A livello di quote, indiscrezioni emerse nei giorni scorsi hanno messo al centro dell’attenzione la possibilità che si cedano quote di società di piazza Affari. Si è parlato di Eni, di cui il Tesoro detiene direttamente il 4,34% e la Cassa Depositi e Prestiti il 25,76%. Ma sul mercato potrebbe finire anche una quota di Cdp Reti, la società della stessa Cassa Depositi che ha in pancia il 30% di Snam e che un domani potrebbe anche trovarsi a ereditare la partecipazione in un’altra società delle reti come Terna, di cui la Cassa Depositi detiene direttamente il 29,9%. E poi c’è tutta la partita immobiliare, per teorici 368 miliardi di euro, sulla quale però si sta già scatenando il derby tra l’Invimit, la sgr del Tesoro che dovrebbe procedere a una valorizzazione del mattone di Stato, e ancora una volte la Cdp, che al suo interno ha già una sgr costituita al medesimo scopo (vedi articolo sopra).
Riceviamo e pubblichiamo:
Gentile direttore,
l’articolo dedicato ad Invimit e titolato “Gestisce immobili pubblici ma paga l’affitto ai privati” contiene informazioni distorte che ritengo doveroso precisare.
1) Invimit è una società di diritto privato di cui il ministero dell’economia e delle finanze detiene l’intero capitale.
2) Essendo una società fuori dal perimetro della Pubblica Amministrazione e, operando sul mercato e a regole di mercato, pagherebbe l’affitto anche nel caso in cui a locare fosse una PA.
3) Fatte le opportune ricerche, non è emersa la disponibilità di immobili pubblici utili ad ospitare (a pagamento) la sede di Invimit.
4) Preso atto di questa circostanza, è stato consultato il sistema informatico ‘Paloma’ che dà conto delle offerte di locazione per le amministrazioni statali (per usi governativi), secondo i regolamenti dell’Agenzia del Demanio.
5) Nell’ambito delle offerte pubblicate su tale applicativo, Invimit ha scelto di prendere in esame quelle formulate non da gruppi privati ma da enti previdenziali.
6) La valutazione finale è stata favorevole nei confronti dell’immobile locato da Inarcassa, cassa previdenziale di ingegneri ed architetti.
7) il canone di locazione proposto dal locatario è stato congruito dall’Agenzia del Demanio. Successivamente, la negoziazione con Inarcassa ha consentito di ottenere uno sconto pari a quello riconosciuto alle PA ovvero pari al 30% del canone di locazione già congruito. Il canone pertanto corrisponde a circa un sesto di quanto riportato nell’articolo
8) Invimit non ha preso in affitto l’intero piano dello stabile ma solo una metà che ha una superfice inferiore di un terzo a quella riportata nell’articolo. Per la restante parte ha una opzione alla locazione valida fino al 2015.
9) Per effetto della legge di spending review è previsto per le PA che siano occupate superficie pari 20/25 mq per ciascun dipendente. Nel caso di Invimit saranno utilizzati 14 mq per dipendente.
10) Prima ancora della accettazione formale dell’incarico in Invimit, avevo ceduto le mie quote in Re Asset Management e mi ero dimessa dalla carica di amministratore unico della medesima società.
11) I ruoli e le competenze di Agenzia del Demanio, Cdp e Invimit sono definite con chiarezza e non prevedono sovrapposizioni di sorta. Non solo: fra i tre soggetti c’è uno spirito di collaborazione reso ancora più stringente ed operativo da un tavolo di coordinamento presieduto dal ministro dell’economia e finanze Fabrizio Saccomanni e dal sottosegretario delegato Pier Paolo Baretta.
12) La richiesta di autorizzazione alla Banca d’Italia, corredata di un particolareggiato piano industriale, è stata presentata il 6 agosto scorso. Giova segnalare che 90 sono i giorni minimi richiesti da Via Nazionale per l’esame dell’istanza. Il lavoro rigoroso di Banca d’Italia (e di Consob) è la garanzia di sonni tranquilli per me, per gli operatori tutti, per gli investori e per i risparmiatori.
Distinti saluti,
Elisabetta Spitz, amministratore delegato di Invimit
Risponde l’autore dell’articolo, Stefano Sansonetti
L’elencazione dei cavilli effettuata dall’architetto Spitz nulla toglie alla notizia riportata nel pezzo, anzi la avvalora. E’ infatti confermata la circostanza che la società del Tesoro che dovrà gestire centinaia di immobili pubblici, la Invimit, è costretta a pagare un canone di affitto per i suoi uffici a un ente privato (fosse stato pubblico, almeno le risorse sarebbero rimaste in questo ambito). Quanto all’entità del canone di affitto, in attesa che l’architetto Spitz produca il contratto a suffragio della sua precisazione, ribadiamo che i dati riferiti nell’articolo sono stati meticolosamente sottoposti al ministero del Tesoro, che non ha fornito alcuna risposta. Come del resto non ha risposto l’architetto Spitz ai numerosi tentativi di contatto telefonico portati avanti ieri da La Notizia. Tra l’altro tra i vari costi che la società sta sostenendo, oltre all’affitto, ci sono anche diverse ristrutturazioni in corso di perfezionamento nello stabile.