“Anche il giudice Di Matteo lo ammazzano. Gli hanno già dato la sentenza”. Dopo le dichiarazioni choc captate dal boss della ‘ndrangheta Gregorio Bellocco subito dopo la scarcerazione di Giovanni Brusca, tutti si aspettavano una forte presa di posizione da parte del Consiglio superiore della magistratura. Peccato che nulla di ciò sia accaduto come emerge dalla decisione di una settantina di toghe, letteralmente da tutta Italia, di prendere carta e penna per scrivere una lettera di fuoco all’indirizzo dell’organo di autogoverno della magistratura.
“Di fronte alle notizie su un possibile attentato ai danni del consigliere Nino Di Matteo, consapevoli che la presa di posizione degli organi apicali dello Stato può costituire un deterrente rispetto alla possibile commissione di gravi delitti a danno di donne e uomini delle istituzioni”, si legge nel documento, “chiediamo che il Csm, il suo plenum e il suo presidente (nella persona del capo dello Stato), anche attraverso pubblica sollecitazione al Governo, ribadiscano e rendano chiaramente percepibili a tutti gli ambienti della malavita organizzata il severo ammonimento e la ferma determinazione dello Stato contro ogni possibile ipotesi di recrudescenza della criminalità nei riguardi di magistrati, forze dell’ordine e uomini delle Istituzioni”.
In altre parole i 70 firmatari della missiva chiedono a palazzo dei Marescialli e al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di farsi sentire e prendere posizione pubblicamente con un intervento che possa “costituire un deterrente rispetto a nuove ipotesi delittuose o stragiste, che vanno ovviamente scongiurate e prevenute con ogni mezzo”. L’iniziativa, spiegano gli stessi magistrati, “è nata spontaneamente in alcune chat e mailing list tra magistrati e non presenta alcuna connotazione correntizia”.
Subito dopo la diffusione delle intercettazioni choc, captate all’interno del carcere di Opera mentre il boss Bellocco e altri detenuti discutevano della scarcerazione di Brusca, a prendere posizione è stata la sola Giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati che aveva espresso “forte preoccupazione” parlando di “inquietanti segnali che impongono un serio approfondimento della vicenda, anche e soprattutto sul piano della prevenzione”. Un messaggio forte a cui evidentemente le toghe – e non solo loro – si aspettavano una presa di posizione simile anche da parte del Consiglio superiore della magistratura che, almeno per il momento, non c’è stata.
L’INTERCETTAZIONE. Che il magistrato e ora consigliere del Csm Di Matteo sia nel mirino dei clan, è cosa nota da tempo. Proprio per le sue numerose indagini e i conseguenti successi, infatti, è costretto a vivere sotto scorta dal lontano 1993. Una misura di protezione che è stata decisa dopo che il boss dell’Acquasanta, Vito Galatolo, raccontò ai pubblici ministeri che si occupano della trattativa Stato-Mafia dell’esistenza di un piano per mettere fine alla vita di Di Matteo. Un ordine che, a suo dire, era stato emanato direttamente da Matteo Messina Denaro attraverso una serie di pizzini inviati a dicembre del 2012.
Una richiesta da cui è scaturito un summit di mafia per organizzare l’attentato con i boss che avevano raccolto 600mila euro per acquistare 150 chili di tritolo, di questi una parte poi effettivamente arrivata in Calabria. Sul caso indaga la Procura di Caltanissetta senza riuscire a rinvenire l’esplosivo e così il fascicolo viene chiuso anche se i pm annotano che “l’ordine di colpire Di Matteo resta operativo”.