Codice degli appalti e semplificazione della macchina dello Stato: sono due angolazioni da cui guardare l’unico vero nodo su cui convergeranno le tante sfide che l’Italia affronterà nei prossimi anni. Il nodo del Recovery Plan, e dunque della concreta capacità di spendere le centinaia di miliardi europei che pioveranno sul nostro Paese dopo la pandemia. Lo sappiamo bene – anche nella nostra vita quotidiana – che un conto è disporre di risorse finanziarie e un altro è riuscire a spenderle e sapere come spenderle.
L’Italia soffre di una cronica incapacità di spesa dei fondi europei: fondi che non sono mai mancati ma che il Paese non è mai riuscito ad utilizzare bene e integralmente, principalmente a causa delle mille strettoie burocratiche che affliggono l’amministrazione locale. Ma la sfida del Recovery Plan non sarà un passaggio tra i tanti: un fallimento italiano su questa partita – ad esempio la restituzione all’Europa, per manifesta incapacità di spesa, di una fetta delle risorse a noi destinate – rappresenterebbe la peggiore eredità che la politica possa lasciare alle future generazioni, oltre a rinfocolare tutti i peggiori pregiudizi coltivati su di noi fuori dai confini.
LA SFIDA EUROPEA. Nasce da qui la discussione di questi giorni sulla semplificazione della macchina dello Stato, passo indispensabile per farci trovare pronti alla sfida del Recovery Plan. Una discussione che si è impantanata innanzitutto sul Codice degli Appalti, per l’emergere di contrapposizioni ideologiche che poco hanno a che fare con la sostanza della questione. Perché è vero che il Codice nasce nel 2016, in pieno Governo Renzi, e con le migliori intenzioni (combattere malaffare e corruzione alla radice, ovvero colpire le mille ramificazioni di appalti e subappalti dove cresce la pastoia per la criminalità organizzata).
Ma è altrettanto vero che in soli cinque anni di vita quel Codice degli appalti è già stato cambiato la bellezza di 547 volte da ben 28 leggi che sono intervenute qua e là per correggerlo, correggerlo, stravolgerlo. Con il risultato di frapporre tra le amministrazioni pubbliche e gli investitori privati non più una barriera anti-corruzione ma una muraglia cinese di difficilissima comprensione, che con la partenza del Recovery Plan potrebbe rendere ancora più complicata la già difficile capacità di spesa delle nostre amministrazioni locali.
COINVOLGERE I COMUNI. Ecco perché è una buona idea quella su cui spinge da giorni Luigi Di Maio, che ha invitato a coinvolgere gli amministratori locali nella discussione sulla indispensabile semplificazione dello Stato. “Loro più di tutti – ha affermato Di Maio – sanno cosa serve alle nostre comunità locali per poter procedere spediti verso una ripartenza che metta al centro le riforme necessarie al Paese”. Una buona idea non molto diversa da quella venuta ieri a Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia Romagna e figura storicamente vicina agli amministratori locali, che ha invitato prima di tutto il suo partito a “non contrapporre la semplificazione burocratica alla tutela ambientale né alla lotta alla corruzione”.
E il punto è proprio questo: uscire dalla sterile contrapposizione tra chi vorrebbe “cancellare il Codice degli Appalti” (come va dicendo Matteo Salvini, evidentemente senza memoria dei bei tempi in cui nelle pieghe dei mille subappalti si annidavano infinite occasioni di corruzione oltre che copiose minacce per la sicurezza sul lavoro) e chi invece esclude per principio che il Codice possa essere migliorato per renderlo meno ostativo nei confronti di una più efficace collaborazione tra enti locali e investitori privati.
SEMPLIFICAZIONE. E LAVORO SICURO. Perché un miglioramento del Codice degli appalti nel senso della sua semplificazione non solo è auspicabile, ma è possibile mantenendone intatto il ruolo di baluardo della sicurezza del lavoro e della lotta alla criminalità organizzata. Ad esempio seguendo l’indicazione che ci viene dall’Europa, che ci ha più volte raccomandato di abbassare il limite previsto per i subappalti (originariamente del 30%, poi alzato al 40% e che qualcuno ora vorrebbe persino alzare al 50%) e che potrebbe attivare una procedura di infrazione nei nostri confronti se la politica non riuscisse a modificare il Codice.
Ma al di là dell’Europa, delle bandierine di partito e della contrapposizione ideologica, il punto di fondo è ancora quello della capacità dell’Italia di farsi trovare pronta per la sfida del Recovery Plan. Una missione che dovrebbe spingere tutti gli attori collettivi – la politica innanzitutto, ma anche le associazioni di categoria e le organizzazioni sindacali – a mettere in cantiere un grande patto nazionale perché il nostro Paese affronti unito la partita di questi prossimi anni.
L’ultimo grande patto di questo tipo fu quello promosso da Carlo Azeglio Ciampi nel lontano 1993, in un momento altrettanto difficile per la nostra vita nazionale. E Ciampi – in quegli anni Presidente del Consiglio – era stato prima di allora Governatore della Banca d’Italia. Come un altro ex Governatore che oggi siede a Palazzo Chigi. E che, chissà, potrebbe anch’egli avere la forza e la volontà di invitare tutti ad un accordo per il bene comune.