In questi anni intorno a noi – tanto in Europa quanto negli Stati Uniti – le opinioni pubbliche e i legislatori hanno preso coscienza della necessità di riflettere e intervenire sui limiti del metodo in passato universalmente adottato in Occidente in materia di stupefacenti: un metodo fortemente incentrato sulla proibizione della produzione e del consumo, indipendentemente dalla loro natura e indipendentemente dalle caratteristiche sociali dei loro consumatori.
È innegabile che la legalizzazione della cannabis sia un tema estremamente divisivo che mette in gioco la nostra stessa coscienza e può determinare divergenze difficilmente colmabili anche all’interno del medesimo partito. Rispetto ad un tema così controverso, e così carico di valenze ideologiche contrapposte, lo sforzo del legislatore deve necessariamente essere guidato da un “approccio pragmatico”. Dovrebbero essere superate innanzitutto posizioni di principio “cannabis sì / cannabis no” per lasciare spazio alla domanda: “quale legge è più adatta a contenere, e se possibile eliminare, i danni sociali e collettivi che derivano dallo sfruttamento criminale della produzione e della commercializzazione della cannabis?”.
L’INFINITO REGALO ALLE MAFIE. Per rispondere correttamente è imprescindibile la consapevolezza del fallimento dell’adozione di un modello di repressione indifferenziata adottato finora in Italia con l’obiettivo di punire in modo sostanzialmente identico tutti i consumatori di ogni sostanza stupefacente. Un modello che ha favorito, invece di indebolirlo, lo sfruttamento criminale della produzione e della commercializzazione di cannabis: dando vita, di fatto, ad un vero e proprio sistema di industrializzazione criminale delle sostanze psicotrope e che ha garantito enormi incentivi economici al mercato illegale delle sostanze proibite.
La proposta di una legalizzazione controllata della produzione e del consumo di cannabis muove esattamente da questo: non tanto da una convinzione ideologica, ma dalla consapevolezza piena e fondata su dati di fatto del fallimento concreto delle politiche proibizionistiche. Un fallimento che ha colpito soprattutto le fasce più deboli e fragili della popolazione, basti pensare al recente e paradossale “caso De Benedetto”.
Affetto da artrite remautoide, malattia invalidante che determina lancinanti dolori, Walter De Benedetto (nella foto) ha dovuto difendersi in Tribunale per aver auto-prodotto cannabis (ha preferito non rivolgersi al mercato nero) utile a sopperire alla mancanza di farmaci cannabinoidi a lui regolarmente prescritti. Alla fine è stato assolto (leggi l’articolo), ma la triste verità è che a processo non avrebbe mai dovuto finirci.
BASTA NASCONDERSI. Alcune importanti prese di posizione di istituzioni italiane alle quali affidiamo la vigilanza su aspetti fondamentali del nostro Stato di diritto ci sono state nel corso degli anni, ma non bastano. Tra queste la sentenza della Corte Costituzionale (la numero 32 del 2014) che ha cancellato l’equiparazione tra droghe leggere e droghe pesanti, o il fondamentale parere della Direzione Nazionale Antimafia che – nella relazione presentata al Parlamento italiano nel febbraio 2015 – ha scritto a chiare lettere di “oggettiva inadeguatezza di ogni sforzo repressivo”, di opportunità di valutare “una depenalizzazione della materia”, della necessità di un “prosciugamento di un mercato appannaggio di associazioni criminali agguerrite”.
La legge sulla legalizzazione della cannabis è oggi alla Camera in attesa di essere discussa eppure, dinanzi a questa grande e tardiva opportunità, Lega e Fratelli d’Italia ergono fieramente barricate. Oltre quelle barricate le urla di dolore di chi ha il diritto di essere curato e invece finisce a processo. La politica ha il dovere di ascoltarle e di dare delle risposte. Subito.