Che Mario Draghi sia un uomo da record vi sono pochi dubbi: ma ieri il record non lo ha battuto. Il via libera al suo esecutivo non era minimamente in discussione, la partita semmai era quella di superare i consensi ottenuti nel voto di fiducia da un altro tecnico (ma dal profilo e dalla storia personale assai diversi) supportato da una maggioranza ampia e trasversale: Mario Monti. Il professore a Palazzo Madama portò a casa 281 sì, 25 no, e nessun astenuto. Alla Camera intascò il consenso di 556 deputati con 61 contrari.
Vedremo oggi i numeri a Montecitorio, intanto a Palazzo Madama Draghi intasca la piena fiducia con 262 favorevoli, 40 contrari e 2 astenuti (leggi l’articolo). Del resto, nel suo discorso programmatico di ieri mattina in Aula, l’appello all’unità e alla centralità del Parlamento (ribadito anche nella replica della sera) è stato chiaro: “Non c’è nulla che faccia pensare che possa far bene senza il sostegno convinto di questo Parlamento. Oggi, l’unità non è un’opzione, è un dovere guidato da ciò che son certo ci unisce tutti: l’amore per l’Italia”.
Un discorso sobrio ma accorato, uno stile comunicativo essenziale, ma con un’emozione evidente. I suoi primi interventi da premier non sono stati certo divisivi, però chiari nei suoi intenti: un governo europeista, atlantista, che pensa che l’euro non sia reversibile, che il fisco debba essere progressivo, che l’immigrazione debba essere gestita a livello Ue. La politica ascolta e quasi unanime plaude, solo FdI ribadisce con granitica coerenza la decisione di non votare la fiducia, con il capogruppo Luca Ciriani che sottolinea: “Non siamo destra di governo a qualsiasi costo. Siamo convinti che governare con gruppi con idee opposte da noi non sia solo un tradimento della coerenza ma anche inutile e dannoso per il Paese. La nostra richiesta era e rimane quella di elezioni subito”.
E ancora: “Noi ci prendiamo l’incarico gravoso di rappresentare l’opposizione”. L’appello all’unità è invece raccolto da tutti gli altri, a partire dal M5s, il cui dissenso interno strada facendo è andato assottigliandosi (alla fine i senatori pentastellati a votare no sono stati meno del previsto). Anche se il capogruppo Ettore Licheri difende il premier uscente Conte “ucciso politicamente” e sottolinea nel suo intervento che quello dei 5S è “un sì è guardingo, un sì condizionato. Noi le romperemo le scatole”. Un fiducia vigile, quindi, e con un attenzione particolare rivolta ai temi di interesse del Movimento, a partire proprio dalla transizione ecologica.
Il Pd ha sposato pienamente i punti programmatici lanciati dal premier sebbene il segretario dem Zingaretti abbia ribadito che “collaborare non significa annullare le identità”, concetto sottolineato anche dal capogruppo Andrea Marcucci: “Non ci nascondiamo che questa sfida sia particolarmente difficile da raggiungere. Ma non essere pronti oggi significherebbe sola una cosa: fallire.” Chiaramente il riferimento è soprattutto alla Lega di Salvini, il quale intervendo in Aula ha parlato di valori comuni, ma anche di “libertà di pensiero” e non ha risparmiato stoccate all’Europa: “è casa nostra, la culla della democrazia e del lavoro. Ma l’Europa che vogliamo è quella della crescita e non quella dell’austerità e dei vincoli di bilancio” sottolineando che “La Lega c’è convintamente ma ricordo che la sovranità appartiene al popolo”.
La capogruppo di FI, Anna Maria Bernini, confermando la fiducia del suo partito, chiede a Draghi una discontinuità rispetto all’esecutivo precedente, un cambio di rotta. Scontato l’entusiasmo del renziano Faraone: “A chi si è chiesto se ne valesse la pena, rispondiamo di sì”.