Sembra incredibile eppure non passa giorno senza che un’inchiesta ci ricordi che la ‘ndrangheta è la prima emergenza in Italia. A confermare questo trend che vede il gruppo calabrese in continua espansione è stata la scoperta di quello che la Procura di Roma ha definito un enclave, ossia una sorta di Stato nello Stato, che la ‘ndrangheta ha costruito all’interno della Capitale. Per questo ieri è stata eseguita l’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal gip di Roma su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia, nei confronti di 33 persone indagate, a seconda delle posizioni, di “associazione finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti, cessione e detenzione ai fini di spaccio, estorsione aggravata dal metodo mafioso, intestazione fittizia di beni, detenzione e porto abusivo di armi”.
Al vertice di questo gruppo criminale c’era Pasquale Vitalone, un uomo da tempo nel mirino dei pubblici ministeri in quanto ritenuto organico alla ‘ndrina degli Alvaro di Sinopoli, in provincia di Reggio Calabria, che da tempo si era stabilito nel paese alle porte di Roma, Sacrofano. Da qui l’uomo e il suo sodalizio sono riusciti a mettere in piedi un gigantesco giro d’affari gettandosi a capofitto nel redditizio business degli stupefacenti. Un giro di spaccio che partiva dalla provincia e abbracciava gran parte del Raccordo Anulare, da Casalotti alla Borghesiana.
QUESTIONE DI FAMIGLIA. Il vertice del sodalizio, stando a quanto accertato dai magistrati e le indagini condotte dai Carabinieri, dirigeva dalla sua maxi villa di Sacrofano le attività criminali, avvalendosi soprattutto della propria famiglia composta dalla moglie, cinque figli e una serie di cugini e nipoti. Una scelta, quella di ricorrere ai parenti per gestire i traffici, che Vitalone ha fatto in quanto li considerava più affidabili e riservati rispetto ad altri componenti del gruppo che, invece, restavano fuori dal gruppo decisionale.
Proprio i familiari erano quelli che, ben consapevoli di cosa stessero facendo, si occupavano delle questioni più delicate come reperire nuovi canali di approvvigionamento degli stupefacenti, curare i rapporti con gli altri associati e mettere in atto le intimidazioni nei confronti di chi non seguiva le regole dettate da Vitalone. Tutte premure che gli hanno permesso di accrescere sempre più i propri traffici tanto che nell’ultimo anno il gruppo era diventato uno dei protagonisti dello spaccio di cocaina, marijuana e hashish, nell’intera area nord-ovest della città eterna o subito fuori dai suoi confini. Proprio per gestire un territorio tanto esteso, l’uomo aveva deciso di dividere la droga a disposizione del gruppo in due covi.
Il primo in un’autofficina a Sacrofano che era diventata il crocevia di semplici clienti ma che veniva usata anche per lo svolgimento delle riunioni tra sodali. Il secondo covo, invece, era un solarium alla Borghesiana che fungeva sia da base logistica del gruppo che da supermercato dove grandi pusher acquistavano la merce per poi rivenderla nelle proprie rispettive piazze. Un fiume di droga che Vitalone, come ricostruito dai magistrati capitolini, si assicurava ricorrendo a diversi canali di distribuzione internazionale che attivava in caso di bisogno. In un’occasione in cui lo stupefacente scarseggiava, l’uomo muoveva i suoi canali e grazie a un ex della Mala del Brenta riusciva a negoziare l’acquisto di 20 chili di cocaina purissima proveniente dalla Colombia.
Sebbene l’uomo vantava canali preferenziali con i narcos sudamericani, non disdegnava anche l’uso di canali nazionali. In un altro episodio, Vitalone ha gestito anche la cessione di 10 chili di marijuana, fornita dal nipote di Ntoni Gambazza ritenuto il capo della cosca calabrese dei Pelle di San Luca, e la trattativa per l’acquisto di 1.5 chili di hashish da cedere ad acquirenti già individuati nella zona di Roma nord. Affari che il gruppo era pronto a difendere con le unghie e con i denti tanto che, durante le indagini, i carabinieri hanno sequestrato un arsenale da guerra tra cui spiccano una pistola revolver e un fucile mitragliatore con due caricatori.
Metodi violenti che il sodalizio non lesinava ad usare come quando viene affrontato duramente un trafficante calabrese per via di una mancata fornitura di stupefacente già pagata 116mila euro. Per convincerlo a riavere indietro il denaro, cosa che sarebbe effettivamente avvenuta, il gruppo prima lo minacciava di morte e dopo pestava un suo uomo fidato.