Dopo le pressioni sulla politica, adesso Confindustria, Federacciai e fonti legali vicine ad ArcelorMittal spostano il tiro sulla magistratura. La richiesta è di non fermare l’area a caldo dell’Ilva – come ordinato dal Tar perché gli impianti sono vecchi e pericolosi (non proprio una novità) – in quanto tale decisione non metterebbe in gioco solo lo stabilimento di Taranto ma il futuro dell’intera siderurgia in Italia.
La fermata forzata degli impianti, secondo le fonti legali vicine al dossier ArcelorMittal riportate dall’Ansa, “senza la disponibilità di una stazione di miscelazione azoto e metano, non permetterebbe la tenuta in riscaldo dei forni e ne conseguirebbe il loro crollo e quindi la distruzione dell’asset aziendale di proprietà dell’Ilva in Amministrazione Straordinaria”.
Secondo le stesse fonti questo comporterebbe seri “rischi per la sicurezza” e il fatto che ci sarebbe un “totale blocco della produzione dello stabilimento, qualificato di “interesse strategico”, l’unico sul territorio nazionale a ciclo integrato per la produzione di acciaio. Per Confindustria lo spegnimento del ciclo integrale a caldo mette in difficoltà l’intera filiera della manifattura italiana, con un aggravio della bilancia commerciale nazionale, poiché occorrerebbe importare l’acciaio dall’estero.
E pazienza se gli impianti continuano ad inquinare e uccidere. Intanto nel processo sul disastro ambientale dell’Ilva gestita dai Riva, denominato “Ambiente Svenduto”, presso la Corte d’assise di Taranto, i pm hanno ribadito la “pesantissima intercessione” dell’ex presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, sull’allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato.