Se prima era solo un’ipotesi, ora la co-responsabilità della ‘ndrangheta nella stagione dello stragismo italiano è una certezza messa nero su bianco dai giudici. Questo è quanto emerge dalle motivazioni della sentenza con cui la Corte d’Assise nel luglio scorso, su richiesta del procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri e dell’aggiunto Giuseppe Lombardo, ha condannato all’ergastolo il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, e Rocco Santo Filippone, ritenuto espressione della cosca Piromalli di Gioia Tauro.
“L’attentato ai danni dei carabinieri avvenuto nella notte tra il 1 e 2 dicembre 1993 e il duplice omicidio del 18 gennaio 1994 sono da considerarsi un antecedente necessario del più eclatante attentato (la fallita strage dell’Olimpico, ndr) che si sarebbe dovuto compiere, nelle intenzioni del Graviano, a distanza di pochi giorni, in un crescendo che si colloca all’interno di una strategia omogenea e unitaria” hanno scritto i giudici di Reggio Calabria nel verdetto sul processo meglio noto come “ndrangheta stragista”.
Frasi pesanti che, però, non sono la fine dell’inchiesta ma, forse, un nuovo inizio perché per i giudici le “responsabilità degli imputati costituiscono soltanto un primo approdo” in quanto dietro agli attentati è “assai probabile” che oltre alla ‘ndrangheta e a Cosa nostra vi fossero “dei mandanti politici che attraverso la strategia della tensione volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre”. La tesi è quindi che la ‘ndrangheta non solo ha partecipato alla stagione delle stragi continentali degli anni Novanta ma ne è stata anche una delle maggiori responsabili.
Anni di bombe e attentati che, contrariamente a quanto si è sempre pensato, non sono state semplicemente una violenta ritorsione dei clan siciliani contro arresti e processi di boss, ma un progetto politico-eversivo teso ad identificare “nuovi e più affidabili referenti politici disposti a scendere a patti con la mafia, che”, proseguono i magistrati nelle motivazioni, “furono individuati nel neopartito Forza Italia di Silvio Berlusconi” che “lascia intravedere il coinvolgimento nelle vicende esaminate di ulteriori soggetti”. Si tratta di quelli che i giudici definiscono “mandanti politici”, ancora senza nome, che devono essere identificati al più presto per mettere fine a una delle pagine più buie della storia italiana. Proprio per questo è stata disposta la trasmissione degli atti alla procura per dare la caccia a chi, fuori dal mondo dei clan, ha tramato e ordinato le stragi.
LA PISTA POLITICA. La pista sulle responsabilità politiche delle stragi, ancora tutta da dimostrare, nasce dalle dichiarazioni del boss siciliano Graviano. A differenza di quanto successe nel processo di Firenze quando si avvalse della facoltà di non rispondere nel momento in cui gli erano state poste domande sui rapporti con Marcello Dell’Utri, dopo 26 anni il capo clan ha cambiato strategia raccontando la sua verità. Nelle udienze dedicate al suo lungo interrogatorio, ha reso dichiarazioni spontanee e risposto alle domande del pm Lombardo facendo nomi e cognomi pesanti.
Per i giudici, in quell’occasione Graviano “ha inteso a suo modo sciogliere tale riserva riferendo diffusamente, in ordine ai suoi rapporti con Berlusconi, descrivendone le origini, che ha indicato in ragioni di carattere economico” e ha anche “spiegato le ragioni del risentimento nei confronti del politico che è arrivato persino ad indicare come mandante del suo arresto”. Accuse che, ora, i giudici vogliono accertare una volta per tutte.