Il veltroniano “ma anche” evidentemente non è mai tramontato del tutto dalle parti del Nazareno dove le coesioni granitiche e le posizioni monolitiche non sono di casa. I distinguo sono all’ordine del giorno, dunque, e anche ieri, dopo l’ intervento a Montecitorio del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nella prima delle due giornate in Parlamento che decreteranno la sopravvivenza del suo governo, la posizione del Partito democratico appare ancora un po’ nebulosa.
Se il sostegno all’esecutivo è chiaramente un dato di fatto (scontata la fiducia nei due rami) le parole del segretario dem Nicola Zingaretti sono da una parte di plauso (“L’intervento del presidente Conte contiene una evoluzione positiva rispetto all’ipotesi in campo di rotolare verso una crisi al buio”) ma dall’altra rispunta appunto un “ma” e non è un ma su una quisquiglia: “La strada, strettissima, molto più stretta di quanto si immagini, perché non possiamo in prospettiva accettare di tutto”, ergo: Conte propone un nuovo patto di legislatura, ma occorre vedere cosa contiene e soprattutto se ci saranno i numeri per farlo, cioè se la maggioranza al Senato sarà una maggioranza di “sopravvivenza” o abbastanza solida per consentire le necessarie riforme (aspetto questo, in verità molto sentito anche al Colle).
Andrea Orlando, vicesegretario del Pd ospite di Tg2 Post su Rai 2 ribadisce che “I 161 voti per la fiducia al governo al Senato sono fondamentali per proseguire la legislatura ma non lo sono per iniziare un confronto. Se non ci sono, credo sia difficile governare. Ma se ci sono domani (oggi, ndr) i numeri per tenere in piedi il governo, abbiamo ottenuto un primo risultato. Da quello si parte non è un punto di arrivo”. Obiettivi “a step” li definisce anche l’esponente dem Debora Serracchiani, un punto di partenza, dunque. Serracchiani si dice anche fiduciosa del fatto che i parlamentari di Italia Viva (che confermano l’astensione anche oggi a Palazzo Madama) non si mettano di traverso: “Purtroppo con le sue dichiarazioni delle ultime ore, credo il presidente Renzi non dia molti margini di dialogo, ha sbarrato quella porta. Diversa è invece la sensibilità dei suoi parlamentari, e dubito che si metteranno all’opposizione del Pd”.
Il punto invece è proprio questo: se da una parte i dirigenti e una parte del partito è assolutamente convinto di chiudere ogni margine di trattativa presente e futura con Matteo Renzi, è pur vero che esiste una nutrita truppa che invece con l’ex segretario non ha mai chiuso i ponti definitivamente. Anche per questo motivo Zingaretti ieri ha espresso le sue perplessità nei confronti di una crisi politica “ancora aperta”. Nel corso dell’assemblea Pd non si lascia andare a facili entusiasmi e, davanti ai suoi riuniti a Palazzo Madama, ammette: “Non diamoci aggettivi fra ottimisti e pessimisti perché siamo dentro una partita che di ora in ora cambia. La situazione è molto difficile e complessa, sia per quanto riguarda gli aspetti politici che per quanto riguarda gli equilibri parlamentari”. E avverte che con la nuova fase che potrebbe aprirsi, i dem sono decisi “a non accettare tutto”. Ovvero: quei dossier rimasti in sospeso, devono essere ripresi e realizzati, come la riforma della legge elettorale (citata non a caso ieri da Conte a Montecitorio) e ovviamente, la gestione del Recovery.