di Clemente Pistilli
Rappresentanti delle istituzioni in prima fila nel giorno della memoria, impegnati a organizzare viaggi ad Auschwitz per le scolaresche e presenti in ogni dibattito per dire mai più a un orrore come quello della Shoah. Tutti compatti persino per condannare il compleanno del centenario Priebke. Quando si tratta però di riconoscere un minimo di sostegno a chi la persecuzione razziale l’ha vissuta sulla propria pelle ed è ancora in vita, trascorsi 75 anni dalla promulgazione delle leggi razziali e cresciuta notevolmente la sensibilità pubblica per la ferita mai rimarginata dei campi di sterminio, le cose sembrano cambiare. Lo stesso Stato dà battaglia sul fronte legale per negare quel minimo di sostegno economico agli ebrei vittime della persecuzione nazifascista, sostegno previsto da leggi dello Stato stesso. Sempre più spesso, a distanza di così tanti anni, anziani che hanno dovuto fare i conti con discriminazioni di ogni tipo e rastrellamenti delle SS sono così costretti a varcare la soglia di un tribunale, a bussare al Tar o alla Corte dei Conti per vedersi concedere quei minimi benefici loro dovuti per legge.
L’ultima sentenza
Il pronunciamento più recente su tale fronte è quello della III sezione del Tar del Lazio, che ha accolto i ricorsi presentati da una studiosa, Giuliana Piperno Beer, contro la Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali della Presidenza del Consiglio dei Ministri e contro il Ministero dell’Economia e Finanze, che le avevano negato il riconoscimento della qualifica di perseguitato razziale e il relativo vitalizio. Il motivo? Per Palazzo Chigi e per il Mef, essendo la donna nata a Roma il 22 gennaio 1944 ed essendo la Capitale stata liberata dagli Alleati il 4 giugno dello stesso anno, la donna non aveva riportato alcun pregiudizio fisico, economico o morale per vedersi riconoscere la qualifica e il beneficio richiesti. Tesi che Presidenza del Consiglio e Ministero, tramite l’avvocatura dello Stato, sono tornati a sostenere davanti al Tribunale amministrativo, dando battaglia contro quei contenziosi portati avanti dalla 69enne assistita, come tanti altri nelle sue stesse condizioni, dall’avvocato romano Raffaele Pendibene. Per lo Stato non avrebbe avuto alcun pregio quanto documentato da Giuliana Piperno Beer, ovvero di essere nata in condizioni di grandi difficoltà, in una “clinica di fortuna”, con le false generalità di Giuliana Marini, e di essersi vista scrivere sulla certificazione anagrafica “razza ebraica”. Niente benefici nonostante la legge sugli ex perseguitati razziali preveda che «il pregiudizio morale è comprovato anche dalla avvenuta annotazione di razza ebraica sui certificati anagrafici». Entrambi i ricorsi sono stati accolti dal Tar, che ha annullato i provvedimenti impugnati. I giudici hanno specificato che, «in considerazione della drammaticità degli eventi storici considerati, tali da aver più volte postulato l’intervento normativo in favore di coloro che di quegli eventi sono stati vittime, l’accertamento dei presupposti, cui le norme fanno conseguire l’attribuzione di determinati benefici, al quale pure l’amministrazione deve provvedere, non può che essere parametrato alla drammaticità delle condizioni evocate, alla natura delle circostanze, ed ora anche al notevole lasso di tempo trascorso». E ancora: «Ciò significa che la prova in ordine alla sussistenza dei presupposti per la concessione del beneficio di legge, lungi dall’ancorarsi ad un rigido dato documentale, deve essere conseguita attraverso ogni possibile valutazione, anche secondo il criterio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, del cosiddetto “più probabile che non”. La prova della sussistenza dei requisiti di legge non incombe solo sul richiedente il beneficio, ma anche sulla stessa pubblica amministrazione, che non può limitarsi a riscontrare un difetto o insufficienza di prova fornita dall’interessato, ma deve essa stessa a–ccertare, anche in base alla mera valutazione dei fatti e in via presuntiva, tale sussistenza».
Il monito dei giudici
Due sentenze quelle emesse dal Tar che suonano come monito alle istituzioni. I giudici sostengono che «il presupposto cui la norma ricollega l’attribuzione di determinati benefici è costituito da uno dei maggiori drammi della storia che, nella sua negativa incommensurabilità, rende anche lo stesso sindacato giurisdizionale, e prima ancora l’esercizio di potestà amministrativa, consapevole della propria sostanziale inadeguatezza di fronte ad esso e alle conseguenze sui soggetti coinvolti». I provvedimenti annullati sono stati ritenuti dal Tar illogici e irrazionali: «Tenuto conto che la ricorrente è nata il 22 gennaio 1944 e Roma è stata liberata dal regime nazifascista il 4 giugno 1944, la parte ricorrente è stata assoggettata ad un regime e relative leggi persecutorie di carattere razziale, come dimostra al di là di qualsiasi possibile o ragionevole dubbio il certificato suddetto e l’avvenuta nascita della ricorrente in condizioni certamente di emergenza, in un convento romano che all’epoca forniva rifugio e assistenza agli ebrei di Roma durante l’occupazione nazista della città». Il danno subito? Di natura morale, il «più grave e odioso proprio quando rivolto contro soggetti minori e indifesi».
La battaglia della centenaria
Numerosi i contenziosi del genere, con lo Stato sempre pronto a dire no e a fare appello contro sentenze favorevoli agli ex perseguitati. Emblematico il caso di Adele Drutter, che a fine giugno, all’età di 103 anni, è tornata a bussare alla porta dei giudici, chiedendo al Tar di annullare il provvedimento con cui le è stato negato il beneficio quale orfana della perseguitata Sara Papo, arrestata a Roma e morta ad Auschwitz. Nel 2007, accogliendo il ricorso del Mef, la Corte dei Conti aveva tolto alla donna l’assegno di 430 euro, sostenendo che Adele Drutter aveva «subito discriminazioni che furono comuni a tutti i cittadini di religione ebraica». Come dire: nulla di speciale.