Trovare riscontri all’anticipazione di Repubblica non è facile. Il dossier è complesso e negli altoforni dell’Ilva la politica si è sempre scottata, curando poi le ferite a suon di miliardi tirati fuori dalle casse pubbliche. Però che si stia muovendo qualcosa di grosso è nell’aria. Il Presidente del Consiglio in persona ci ha messo la faccia recandosi più volte nell’impianto pugliese, e se i soldi dell’Europa vanno spesi in progetti solidi cosa c’è di più resistente dell’acciaio? Dunque c’è luce in fondo al tunnel che porta a Taranto passando da Londra e Parigi, quartier generali europei del colosso ArcelorMittal, da cui arrivano altri segnali incoraggianti. Mentre la cassa langue e si lavora al minimo delle potenzialità, la multinazionale siderurgica ha saldato una rata dell’affitto dovuto ai commissari.
Dall’altra parte, tra Palazzo Chigi e via Venti Settembre si ragiona sui soldi, e l’investimento di un miliardo di euro ipotizzato da Repubblica non pare affatto inverosimile. Con questa nuova trasfusione di risorse pubbliche si rilancerebbe Taranto, si continuerebbe a bonificare una delle aree industriali più inquinate del Continente e si metterebbe fine a un altro esborso ormai cronico, con il rinnovo di ciclo in ciclo della cassa integrazione. Molti buoni motivi per correre, ai quali se ne aggiunge un altro forse più stringente, e cioè la scadenza di questo mese, quando Arcelor potrà staccare un assegno da 500 milioni di euro (gestibilissimi per un gruppo che fattura 70 miliardi di euro) e abbandonare l’Italia.
Se però da Roma arrivasse una nuova mano, allora le cose potrebbero aggiustarsi, e ArcelorMittal farci la grazia di restare a comandare in casa nostra con i nostri quattrini. Miracoli dei disastri ereditati dalle partecipazioni statali gestite con i metodi della Prima Repubblica, che infatti consegnò il campione della siderurgia nazionale al Gruppo Riva, poi finito tra arresti e buchi finanziari. Storie del passato, a cui è meglio non pensare ora che è prioritario salvare il posto di lavoro ad oltre diecimila dipendenti.
Uno scenario possibile solo se si riporta su livelli quantitativi accettabili la produzione, raggiungendo le 8 milioni di tonnellate di acciaio l’anno e convertendo due forni al sistema elettrico. Obiettivi costosi, e a maggior ragione proibitivio adesso che per gli effetti economici del Covid la richiesta mondiale dell’acciaio è ai minimi termini. Lo scenario ideale per consentire ad ArcelorMittal di ricontrattare gli accordi col Governo e forse spuntare un altro vagone di denaro. Oppure con il vagone già ottenuto, mollare tutto e salutare.