di Gaetano Pedullà
Più soldi ai ricchi. Più rabbia ai poveri. Quello che succede nel pianeta delle pensioni in Italia ha dell’incredibile. Parte in questi giorni la restituzione del contributo imposto sugli assegni sopra i 90 mila euro annui, le cosiddette pensioni d’oro. A deciderlo era stata nelle scorse settimane la Consulta, che osservando alla lettera un generico principio di uguaglianza tra contribuenti, aveva imposto all’Inps di restituire gli importi già trattenuti. L’Istituto, quest’anno con un bilancio in profondo rosso (nove miliardi di perdita) dovrà così restituire 40 milioni di euro l’anno. Naturale che l’ente provi a raschiare il fondo e recuperare un po’ di risorse dove è possibile. E dove è più facile tagliare? Ma dai più disperati, ovviamente, e nelle pagine interne vi raccontiamo dei numerosi casi di pensioni di invalidità tagliate con ogni genere di pretesto, compreso a chi si è recato all’estero magari per una cura. Se in nome della legge si è salvato il principio di uguaglianza tra contribuenti, in nome dei bilanci si sta sacrificando la solidarietà verso i più deboli. Deboli che dagli esodati ai giovani – le vere vittime sacrificali di un sistema che in futuro erogherà pensioni da fame – sono sempre meno tutelati. Chi entra oggi o sta da poco nel mondo del lavoro sa già che agli sforzi per pagare contributi sempre più pesanti non corrisponderà mai un trattamento corrispondente, per non parlare dei benefici a cui hanno avuto accesso i nostri genitori. Per questo, vedere l’Inps che restituisce milioni ai pensionati da sette mila euro al mese in su, fa scattare in barba ai codici un ovvio senso di rassegnazione verso un sistema che tutela i tutelati e dimentica gli ultimi. Un sistema coerente con una comunità che ha perso le ragioni forti di quello stesso patto sociale su cui si regge lo Stato. Un altro piccolo sintomo di una malattia che sta trasformando il Paese in un malato incurabile.