di Vittorio Pezzuto
Si sono fatti strappare sotto il naso una misura-manifesto, ritrovandosi con una credibilità ridotta a brandelli. Il governo delle larghe intese, la cui caratura politica è inversalmente proporzionale al sostegno che gode in Parlamento, è stato messo in imbarazzo dalla ‘correzione’ che alcuni funzionari della Camera hanno apportato di soppiatto al testo di conversione del decreto Fare, facendo saltare il tetto di 300mila euro degli stipendi degli amministratori delle società non quotate che svolgono servizi di interesse generale anche di rilevanza economica.
«Si è trattato di un mero errore materiale dovuto alla concitazione per l’approvazione in tempi stretti di un provvedimento complesso», hanno tentato di spiegare alcuni deputati della Commissione Bilancio. Ma di refuso evidentemente non si è trattato, dal momento che il ministero dello Sviluppo economico si è affrettato a spiegare che la norma è stata invece voluta per introdurre elementi di uniformità nelle retribuzioni e che quindi non va in alcun modo interpretata come un tentativo di eliminare il tetto retributivo.
La verità è che alcuni alti funzionari di Montecitorio – per definizione inamovibili (a passare, si sa, sono solo parlamentari e ministri) nonché dotati di menti affilate e manine accorte – hanno pensato bene di lavorare in proprio per disinnescare una misura sbandierata a suo tempo dal tecnicissimo governo Monti (e inserita nel decreto Salva Italia) ma che in ogni caso molto difficilmente avrebbe trovato concreta applicazione.
Il tetto massimo delle retribuzioni era infatti già stato escluso per gli amministratori di società anche non quotate ma che comunque emettono titoli su mercati quotati. In questa categoria rientrano gli amministratori di Cassa Depositi e Prestiti, Poste (che guarda caso ha recentemente emesso titoli per 750 milioni di euro), Ferrovie dello Stato, Anas e molte altre società pubbliche molto più piccole.
Individuato e sfruttato a dovere questo pertugio, i diretti interessati non avrebbero dunque avuto nulla da temere dal testo originario della legge di conversione. Se il caso è esploso è quindi per un evidente fatto di immagine: alla classe politica questo schiaffo è bruciato, eccome. Essere presi per il sedere non piace a nessuno e il clamore che i giornali stanno dando alla misteriosa e assai tempestiva modifica del testo non aiuta certo le Camere a riconquistare quell’autorevolezza da tempo perduta.
Il ministro dei Rapporti con il Parlamento Dario Franceschini ha annunciato che la norma che verrà in ogni caso cambiata al Senato e lo stesso hanno promesso diversi esponenti della maggioranza. Tra questi il presidente della Commissione Finanze Daniele Capezzone, che si è chiesto ad esempio «come sia possibile non porre un tetto ai super-stipendi dei manager pubblici e assumere 120 nuovi funzionari nei ministeri, dando così dimostrazione di non voler tagliare nemmeno di un centesimo la burocrazia statale». Palazzo Madama correggerà quindi la ‘svista’. Peccato che in questo modo, costringendo poi la Camera a una seconda lettura, sarà compromesso in parte l’obiettivo finale della richiesta del voto di fiducia: procedere spediti, evitando pericolosi incagliamenti dei lavori parlamentari a ridosso delle imminenti, agognate vacanze estive.
I più irritati per quanto è successo ieri apparivano senz’altro i deputati di Scelta Civica, corifei del Monti-pensiero. Linda Lanzillotta ha parlato di «norma spudorata» e di «colpo di mano», spiegando che «in questo modo infatti vanno vanificati i tentativi di intervenire in modo profondo sulla spesa pubblica e sul modo di operare delle società del settore». Il commento più duro è arrivato dal suo collega di partito Andrea Vecchio: «Noi parlamentari non riusciamo a svolgere il nostro lavoro, che sarebbe quello legislativo. Non abbiamo alcun potere. Subiamo i decreti del governo, d’accordo, soprassediamo perché si tratta di una situazione di emergenza politica ed economica, ma che i testi delle leggi siano pure manipolati dai funzionari della Camera è davvero inaccettabile. Burocrati inamovibili che quatti quatti introducono pesanti emendamenti agli articoli, attribuendoli poi a distrazione. Funzionari che gestiscono i testi normativi calpestando il ruolo e l’autonomia del Parlamento».
Parole che uno dei relatori al decreto, il pdiellino Francesco Paolo Sisto, ha definito «diffamatorie perché gettano discredito sul Parlamento, sull’amministrazione della Camera dei deputati e in particolare sui consiglieri parlamentari che hanno, come di consueto, esercitato in maniera impeccabile, di giorno e di notte, le funzioni di consulenza procedurale, assistenza giuridico-legale e certificazione del lavoro parlamentare».
Sta di fatto che ieri in Transatlantico si respirava una certa tensione, anche perché le opposizioni non si sono fatte pregare per banchettare politicamente sull’accaduto. «Toh! Si sono sbagliati: è saltato il tetto agli stipendi dei manager pubblici nel ddl su cui il governo ha posto la fiducia… Che caso strano» ha ironizzato il capogruppo M5S al Senato Nicola Morra, in un tweet prontamente retweettato da Beppe Grillo. «Se ci sono manager che non si accontentano di emolumenti pari a quelli di un primo presidente di Cassazione, possiamo fare benissimo a meno delle loro prestazioni» ha chiosato feroce il capogruppo di Sel alla Camera Gennaro Migliore.
Il quale non avrà certo condiviso la presa di posizione di Federico Ghizzoni, amministratore delegato di Unicredit: «Bisogna capire se mettere un tetto a queste retribuzioni permetta poi di attrarre manager di alto livello per guidare le aziende pubbliche». Insomma, occorre trovare «un giusto equilibrio». Sarà, ma intanto sembra saltato quello tra volontà dei parlamentari e leale collaborazione dei funzionari della Camera.