di Gaetano Pedullà
Un passo avanti e due indietro. Così sta al palo quest’Italia ingessata da leggi bizantine, egoismi corporativi, privilegi inestirpabili. E riforme che mancano o se arrivano sono subito anestetizzate, se non del tutto cancellate. Il caso che racconta oggi La Notizia è più che emblematico. Il parlamento, dopo dure resistenze, nel 2011 aveva messo un vincolo preciso agli amministratori pubblici, siano essi governatori di Regione, presidenti di Province o altro. Chi non gestiva in modo virtuoso, lasciando il proprio ente con le case vuote, per dieci anni non avrebbe potuto ricandidarsi allo stesso incarico. Una punizione allo scopo sacrosanto di ridurre gli sprechi. La legge fu sbandierata all’opinione pubblica come prova di una politica che sapeva anche essere oculata, il pubblico applaudì e il giorno dopo i riflettori si spostarono su altro. In silenzio però tutte le regioni a statuto speciale e cinque a statuto ordinario (Emilia-Romagna, Umbria, Lazio, Campania e Calabria) fecero opposizione e oggi l’hanno avuta pure vinta, con la Corte Costituzionale che ha bocciato la norma sull’incandidabilità. Nelle pagine interne trovate i dettagli dell’intera vicenda. Ma la lezione che arriva da questa, come da tante altre storie di leggi approvate, cambiate, ripresentate, interpretate, svuotate e chi più ne ha più ne metta è che in questo Paese si è persa ogni certezza del diritto. Le norme sono usate come fisarmoniche. E mentre i cittadini chiedono lavoro, pane, futuro, c’è chi utilizza codici e argomentati concetti giuridici per spaccare il capello in quattro e lasciare che tutto resti come prima. Senza la più grande riforma di cui abbiamo bisogno – la riforma dello Stato – anche una buona e forte politica potrà far poco. Se poi la politica è così ipocrita da promettere il taglio dei finanziamenti ai partiti e poi rimangiarsi la parola, oppure è tanto debole da dover mettere la fiducia in Parlamento nonostante una maggioranza sulla carta larghissima, allora c’è davvero poco da sperare.