Ancor prima che si conoscessero i risultati plebiscitari del referendum costituzionale sul taglio del numero dei parlamentari, il Movimento cinque stelle – Luigi Di Maio in testa – ha subito rilanciato: non basta ridurre gli onorevoli eletti da 945 a 600, occorre anche ridurre loro lo stipendio. Il ragionamento è immediato: poiché i Cinque stelle sin dal 2013 restituiscono parte delle proprie indennità, non si capisce perché gli altri non lo possano fare. Questa è la ragione per cui ormai da settimane sono in corso trattative all’interno della maggioranza per giungere a una proposta condivisa che abbia come unico fine quello di ridurre gli onorevoli stipendi. La Notizia, però, è in grado di anticipare la ricetta, chiara e puntuale, che il Movimento ha già in testa.
LA MODIFICA DI LEGGE. Bisogna innanzitutto precisare che le indennità parlamentari (lo stipendio, per intenderci) costituiscono l’unica parte tassata della retribuzione complessiva. Parliamo in soldoni di 10.435 euro lordi al mese per gli inquilini di Montecitorio e di 10.385 euro, sempre lordi e sempre al mese, per quelli di Palazzo Madama. Detratta l’Irpef e le addizionali regionali e comunali – queste ultime variano a seconda della località di residenza del singolo parlamentare – parliamo, più o meno, di uno stipendio netto mensile di circa 5.000 euro. E qui subentra il primo problema: la legge di riferimento delle indennità è la n. 290 del 1965 che, all’articolo 1, stabilisce: “Gli Uffici di Presidenza delle due Camere determinano l’ammontare di dette quote (lo stipendio mensile più i vari rimborsi, ndr) in misura tale che non superino il dodicesimo del trattamento complessivo massimo annuo lordo dei magistrati con funzioni di presidente di Sezione della Corte di Cassazione ed equiparate”.
Questa la ragione per cui occorre innanzitutto, spiegano autorevoli fonti pentastellate, sganciare l’indennità dal rapporto col trattamento del presidente di Cassazione. A questo punto potrebbe essere ripresa l’impostazione del disegno di legge presentato nella scorsa legislatura da Roberta Lombardi, che prevedeva il dimezzamento dell’indennità: da circa 10mila euro lordi a 5mila.
I RIMBORSI. Tutto questo, però, potrebbe non bastare. “Non vorremmo – spiega ancora l’autorevole fonte 5S – che si faccia rientrare dalla finestra ciò che facciamo uscire dalla porta”. Come noto, infatti, accanto all’indennità i parlamentari godono di vari rimborsi. E parliamo, peraltro, della parte non tassata della retribuzione: “Chi ci dice – questo il dubbio – che nel corso degli anni e delle legislature gli uffici di presidenza non aumentino tale quota con la beffa che si torni agli stessi livelli di retribuzione ma con una quota maggiore della parte non soggetta a tassazione?”. Sarebbe il colmo.
Ecco perché il Movimento, oltre alla modifica legislativa determinante per ridurre le indennità, vorrebbe anche apportare modifiche tramite delibere degli uffici di presidenza delle Camere (in virtù dell’autodichia). La “pietra dello scandalo” in questo caso sarebbero i succulenti rimborsi per l’esercizio di mandato che valgono sia per deputati che per senatori circa 4mila euro cadauno. Tale quota è al 50% forfettaria e al 50% assegnata dietro rendicontazione. Il Movimento a riguardo vorrebbe effettuare due importanti operazioni: innanzitutto rendere il corposo rimborso interamente soggetto a rendicontazione, di modo che nessuna quota venga data arbitrariamente. E, in più, che i collaboratori parlamentari siano assunti e pagati direttamente dalle Camere anziché dal singolo onorevole.
Una modifica regolamentare che, in un colpo solo, permetterebbe da un lato di eliminare alla radice i vergognosi casi – di cui spesso abbiamo sentito parlare – di portaborse pagati in nero e, dall’altra, di evitare che l’onorevole intaschi lui i soldi destinati ai collaboratori qualora decidesse di non assumere assistenti. Insomma, una doppia sforbiciata pesante che ha un’unica incognita. I 5 Stelle da soli non hanno i numeri per approvarla: che faranno gli altri partiti?