Il clan che quattro anni fa si sarebbe occupato delle campagne elettorali della Lega a Latina e Terracina è mafioso. Lo ha sostenuto la Direzione distrettuale antimafia romana, lo ha ribadito lo scorso anno il giudice per l’udienza preliminare capitolino Annalisa Marzano e lo ha confermato ieri la Corte d’Appello di Roma. Quando due anni fa, al culmine di una nuova indagine sugli affari delle famiglie di origine nomade che da lungo tempo hanno messo radici a Latina, la squadra mobile arrestò 25 esponenti e gregari dei Di Silvio, per la prima volta agli indagati venne contestato di aver messo in piedi un’associazione per delinquere di stampo mafioso.
In “Alba Pontina”, questo il nome che venne dato all’inchiesta, sono state descritte estorsioni, prestiti usurati, intestazioni fittizie di beni, traffici di droga ed episodi di corruzione elettorale. Un aspetto quest’ultimo su cui si è subito concentrata l’attenzione, oggetto anche di dibattito parlamentare e di prese di posizione della Commissione antimafia presieduta dal pentastellato Nicola Morra. Per gli inquirenti il cosiddetto clan dei Di Silvio di Campo Boario, capeggiato da Armando “Lallà”, avrebbe fatto affari nelle campagne elettorali, con l’attacchinaggio e comprando anche voti.
Un’attività che, secondo l’Antimafia, venne svolta a favore soprattutto della Lega e dell’ex consigliera regionale di centrodestra Gina Cetrone, poi passata con Cambiamo con Toti e nel gennaio scorso arrestata. I pentiti parlarono soprattutto di voti acquistati per l’allora candidato civico a sindaco di Latina, Angelo Tripodi, attuale capogruppo del Carroccio alla Regione Lazio, e per l’attuale eurodeputato verde Matteo Adinolfi. Una forma di corruzione elettorale negata con forza dagli esponenti del partito di Matteo Salvini, giurando di non aver nulla a che fare con i Di Silvio e di non sapere nulla di candidati o imprenditori che avrebbero ingaggiato il clan per favorire la Lega. “Il clan Di Silvio a Latina, in questi anni, ha dialogato con parti importanti della politica e del calcio locale”, dichiarò Morra una volta iniziato il processo, assicurando anche che della vicenda si sarebbe interessata la sua commissione e avrebbe disposto delle audizioni di quanti erano stati tirati in ballo dagli inquirenti e dai collaboratori di giustizia.
I GIUDIZI. Nove imputati, tra cui tre figli del presunto boss Armando Di Silvio, hanno scelto di essere giudicati in abbreviato, allo stato degli atti, e per loro si sono conclusi i processi sia di primo che di secondo grado. Avendo emesso condanne per 74 anni di carcere, lo scorso anno il giudice Marzano, nelle stesse motivazioni della sentenza, ha sostenuto che Latina è una città “strategica negli affari illeciti”, dove la collettività sarebbe “assoggettata all’egemonia dell’associazione che è indubbiamente di tipo mafioso”, aggiungendo che l’associazione mafiosa sarebbe stata “capace di controllare il territorio anche influenzando il voto della comunità locale”, con “una straordinaria forza intimidatrice, che ha assoggettato intere categorie di professionisti e di imprenditori locali”.
Gli imputati hanno quindi impugnato quella sentenza, mirando in particolare a far cadere l’accusa di mafia. Ma quell’ipotesi ha retto. E ieri, seppure con uno sconto di pena, essendo stata ridimensionata l’accusa sul traffico di sostanze stupefacenti, ridotto al semplice spaccio di droga, quell’accusa è stata confermata dalla Corte d’Appello di Roma. Il motivo? Si saprà tra novanta giorni.