Luigi Di Maio è stato chiaro in una intervista a Rtl: “Non sto pensando di tornare capo politico, ma serve una leadership forte”. Diciamo subito che potremmo essere dubbiosi su questa dichiarazione, ma ne dobbiamo dare atto e regolarci di conseguenza non rinunciando però a qualche considerazione. In effetti il ministro non ha solo scandito una frase ad effetto, ma ha poi seguito un ragionamento: “Quando mi sono dimesso a gennaio ho detto che speravo che le responsabilità potessero ricadere di più sulle spalle di più soggetti. Perché se la leadership è unica, poi gli altri si deresponsabilizzano”.
I NODI. Queste affermazioni sono chiare e vanno verso la direzione collegiale del direttorio, ipotesi che invece non pare condivisa da Casaleggio jr che vorrebbe un capo politico che potrebbe essere individuato in Alessandro Di Battista, l’unico sfidante credibile, secondo il ragionamento di Milano, sul piano della leadership pentastellata e questo per diversi motivi. Intanto ha fatto solo una legislatura ed ora sta fermo per un giro come semplice iscritto e poi perché esiste un asse ideologico tra Casaleggio e Di Battista, asse coltivato e costruito su una visione di stampo sovranista che aveva trovato la sua concretizzazione nella formazione del governo giallo-verde con Matteo Salvini.
La componente sovranista, diciamo pure di “destra” nel Movimento, c’è eccome, solo che in questi tempi cromaticamente virati sul rosso e voluti da Beppe Grillo ad agosto dello scorso anno, è come dire “in sonno”, ma continua ad agire sia ideologicamente che pragmaticamente. Non si dimentichi infatti che Casaleggio possiede le chiavi della piattaforma Rousseau e gestisce, di fatto, tutte le votazioni on line che sono alla base della fisiologia stessa del Movimento. E qui dobbiamo considerare una certa insofferenza, se non proprio contestazione, che qualche volta emerge dai gruppi parlamentari verso il voto on line. Insofferenza che si è materializzata qualche giorno fa con la contestazione di una quarantina di eletti contro l’ipotesi del voto su Rousseau per individuare il tipo di reggenza, a leadership condivisa o a capo politico, che è in discussione. Soluzione peraltro prospettata da Vito Crimi, capo politico ad interim, come forma di mediazione tra Roma e Milano.
Inoltre, negli scorsi giorni Di Maio è stato chiaro sulla fiducia accordata al premier Conte, nonostante le ricorrenti voci di fondo alimentate dal mainstream mediatico sulla possibilità che l’avvocato pugliese stia lavorando ad un suo partito. Naturalmente i fatti interni dei Cinque Stelle sono legati a doppia mandata ai fatti esterni della politica nazionale e l’arrivo del referendum insieme alle regionali sono certamente fattori di chiarezza propedeutici ai famosi Stati Generali del Movimento e cioè, in pratica, a quello che nei partiti normali è chiamato Congresso in cui le diverse anime sono chiamate a confrontarsi.
Tuttavia resta il fatto che Di Maio è l’unica figura che ha una notevole esperienza istituzionale e governativa, tre volte ministro, vicepremier e capo politico e sembra difficile che alla sua età abdichi così precocemente. È più logico quindi pensare ad una fase di transizione ulteriore che passi inevitabilmente per un direttorio che scongiuri – per la tenuta di governo col Pd – l’arrivo di Di Battista al potere. Solo dopo aver sventato questa “minaccia” è possibile che il ministro, magari forte dell’esito dei referendum, possa essere richiamato dalla base, e cioè non proporsi lui, per riprendere il discorso interrotto dopo le Europee dello scorso anno.