Un intervento tanto accorato quanto condiviso e applaudito non solo dai presenti al meeting di Rimini – appuntamento ormai canonico non solo per il mondo che gravita attorno a Comunione e Liberazione, ma per l’intero mondo politico e culturale – ma anche da gran parte dei commentatori e degli osservatori. Il discorso di Mario Draghi ha colpito nel segno. E d’altronde è difficile non essere d’accordo con le sue parole: “I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire. Ai giovani – ha detto – bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuri”. Bisogna dunque pensare ai giovani perché “Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza”.
LODI E INCOERENZA. Applausi, lodi, standing ovation. Ed è giusto sia così. Perché non una parola nell’intervento di Draghi era fuori luogo o non condivisibile. L’ex presidente della Bce è stato chiaro anche su un altro punto: “Il debito creato con la pandemia è senza precedenti e dovrà essere ripagato principalmente da coloro che sono oggi i giovani”. È dunque “nostro dovere far sì che abbiano tutti gli strumenti per farlo pur vivendo in società migliori delle nostre”.
E ancora: “Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi”. Tutto ancora una volta più che condivisibile. Il punto, però, è che le parole di Draghi sono un manifesto chiaro del fallimento della classe politica e tecnica di cui lo stesso Draghi è stato parte. Ecco perché condannare oggi ciò che in qualche modo lo stesso Draghi ha determinato, appare in qualche modo incoerente e illogico. E lo è nella misura in cui nel suo discorso non c’è alcuna tracci di un “mea culpa”.
CURSUS HONORUM. Non bisogna dimenticare, infatti, chi è Mario Draghi. Economista, accademico, banchiere e dirigente pubblico italiano, prima di essere presidente della Bce, ha lavorato in Goldman Sachs, nel 2005 è stato poi nominato Governatore della Banca d’Italia, prendendo il posto di Antonio Fazio, divenendo così membro del Consiglio Direttivo e del Consiglio Generale della Banca centrale europea nonché membro del Consiglio di amministrazione della Banca dei regolamenti internazionali. Ha ricoperto inoltre l’incarico di Presidente del Financial Stability Board.
È stato Direttore esecutivo per l’Italia della Banca Mondiale e nella Banca Asiatica di Sviluppo. Finché nel 2011 ha preso il posto all’Eurotower di Jean-Claude Trichet. Un cursus honorum inividiabile, tanto che nel 2018 è stato annoverato tra gli uomini più potenti del mondo. Tanto basta per capire il perché le sue parole, pur essendo nuove e rivolte ai giovani, provengono da chi ha rivestito ruoli-chiave nella politica di ieri figlia di quell’“egoismo collettivo” che “ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno”.
OBIETTIVO QUIRINALE. E qui allora la domanda: perché un discorso di renovatio così prodondo? Il dubbio, legittimo, è che Draghi pensi sì al futuro, probabilmente anche a quello dei giovani, ma forse anche al suo. Non è certo un mistero che il nome dell’ex presidente della Bce compaia a ogni piè sospinto ogni volta che si ragiona sul nuovo presidente della Repubblica. Il mandato di Sergio Mattarella scadrà, come si sa, nel 2022. E il nome di Draghi, come si è visto anche ieri dagli applausi alle sue parole, mette d’accordo quasi tutti. In nome di un rinnovamento che sa già di vecchio.