Machismo, oltranzismo, tele-esondazione, indifferenza alle disuguaglianze sociali ed economiche. Tradizionalismo, immobilismo, sacralità della verità, mitologia della casta dominante. Antieuropeismo, antiglobalismo, ultranazionalismo, sovranismo patriottardo. Che si parli di Stati a furente caratura neoliberista, filotrumpiani per intenderci, di dittature storiche – Cina e Corea -, o di destre violente e accentratrici, ogni potere ha una sua matrice che non è solo basata su una precisa organizzazione funzionale e istituzionale, ma ha alle spalle – meglio, nel suo cuore, nel suo geist – una identità collettiva, un “investimento libidinale” che parte dal basso e lo riconosce e rinvigorisce costantemente, come un serbatoio di energie, come un indistruttibile auto-convincimento.
E’ questa la dimensione del “politico” secondo la studiosa Chantal Mouffe che nel suo ultimo saggio Politica e passioni (Castelvecchi, pagg. 44, euro 7,50) analizza proprio l’effetto delle emozioni condivise sulle architetture organizzative di un Paese, e come l’elemento divisivo, antagonistico, polemologico sia non un limite, un difetto da esorcizzare, un baratro da cui tenersi a debita distanza ma, anzi, una linfa, una sorgente reviviscente delle iscrizioni discorsive pubbliche e della possibilità che una configurazione delle cose, degli eventi, delle governance ceda il passo a novità assolute.
Il sociale, ci dice la Mouffe, è “il campo delle pratiche sedimentate” dietro le quali si nasconde – ma cova e brulica – l’atto originario, creativo e scritturale, di contingenze affettive pure e intersoggettive che hanno portato a quella precisa manifestazione egemonica, a quella contingenza che si cristallizza in ordine, leggi, ripartizioni.
Pedagogia e dialettica, fondazione e gestione, registro del pathos e fatticità devono mantenere una circolarità, pena – dice la Mouffe – il collasso di una Sinistra presidiata ormai da “grigi uomini di apparato dalla cantilena monocorde e privi di alcun tipo di acuto”, mentre i rigurgiti neofascisti e leghisti strepitano costantemente sulle folle, battendo il tamburo di paure e bisogni arcaici lasciati frustrati e insoddisfatti, meritando così rapidi consensi. Agonismo contro agonia diremmo, allora.
Partire da uno “spazio simbolico comune”, insomma, per finire al conflitto di vere diversità progettuali che si combattono per darsi il cambio, non a un facile irenismo, a una presunta armonia sociale su basi di mercato o di comunicazione, dove tutti sono concorrenti, sfidanti o dialoganti, e tutti si sfrattano per il possesso, o, chissà perché, si capiscono sulla base di regole logiche e verbali. Diventare non nemici che si sbranano, ma avversari che promuovono il fuoco di legami più giusti e allargati: un “populismo di sinistra”.