Dopo la pronuncia del tribunale dell’Aja che ha riconosciuto all’Italia la giurisdizione sul caso dei Marò, sembrava arrivata la parola fine sul procedimento aperto in India. Peccato che ieri la Corte suprema indiana, in un’udienza che doveva mettere un punto al processo, è arrivato l’ennesimo ceffone al nostro Paese. Già perché in modo del tutto inatteso, i giudici di Nuova Delhi hanno respinto la richiesta, avanzata dal loro stesso governo, di chiudere il caso nei confronti di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i marinai accusati di aver ucciso due pescatori nel 2012.
Ad annunciarlo è il presidente della Corte, Sharad Arvind Bobde, che – richiamandosi alla sentenza del tribunale internazionale – ha detto: “Lasciamo che l’Italia paghi loro il risarcimento. Solo allora chiuderemo il caso”. In realtà, però, le cose non stanno esattamente così e questa mossa riporta la tensione tra i Paesi oltre i livelli di guardia. In base alla sentenza arbitrale pubblicata dal Tribunale costituito a l’Aja il 6 novembre 2015, i fucilieri Latorre e Girone al momento dei fatti godevano della immunità e per questo all’India è stato precluso l’esercizio della propria giurisdizione nei loro confronti che, invece, compete esclusivamente alla magistratura italiana.
Con lo stesso dispositivo l’Aja, però, ha anche certificato che l’Italia ha violato la libertà di navigazione sancita dagli articoli 87 e 90 della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 10 dicembre 1982, e per questo dovrà compensare l’India per la perdita di vite umane, i danni fisici, il danno materiale all’imbarcazione e il danno morale sofferto dal comandante e dagli altri membri dell’equipaggio del peschereccio Saint Anthony finito sotto ingiusto attacco. Risarcimento per il quale il tribunale dell’Aja, come messo nero su bianco nel proprio verdetto, invitava le due parti a raggiungere un accordo attraverso contatti diretti.
Proprio quelli già in corso e per i quali il governo indiano, attraverso la propria avvocatura di Stato, aveva chiesto alla Corte di chiudere il procedimento vista la buona volontà dimostrata dal nostro Paese che dalla Farnesina, all’indomani del dispositivo, aveva fatto sapere di essere “pronta ad adempiere a quanto stabilito dal Tribunale arbitrale, con spirito di collaborazione”. Un verdetto che evidentemente i giudici indiani hanno recepito solo per quanto riguarda la parte relativa ai risarcimenti e non quella, come chiesto dal tribunale, sulla giurisdizione del caso.